Pericolo, risorsa, simbolo: le forme dell'acqua nell'antica città greca di Locri Epizefiri
L’uomo e l’acqua in una città antica, un rapporto basato su timore e necessità: la gestione di questa risorsa fondamentale oscilla tra difesa dal pericolo e sfruttamento delle sue potenzialità. A Locri Epizefiri, città della Magna Grecia nell’attuale Calabria dove lavoriamo da anni, stanno venendo alla luce nuovi preziosi indizi. Tutto questo, grazie al lavoro degli archeologi, tra pietre e polvere, in collaborazione con un team interdisciplinare.
La relazione tra le comunità umane e l’acqua è un tema centrale nello studio delle civiltà antiche. Ma come indagare il rapporto con un elemento dalla natura volatile, una risorsa fondamentale che si dissolve però nelle polveri del tempo? Per raggiungere questo obiettivo gli archeologi studiano le opere costruite nel passato per controllare il potenziale distruttivo dell’acqua, le infrastrutture realizzate per facilitarne lo sfruttamento e favorire l’approvvigionamento idrico, ma anche i dispositivi e i contenitori utilizzati nei rituali in cui l’acqua era un elemento purificatore essenziale.
Insomma, la ricerca dell’acqua perduta passa attraverso l’analisi dei manufatti destinati a “dare forma” all’acqua stessa per contenerla, controllarla, gestirla.
Negli ultimi anni, le indagini della missione che conduciamo nel sito archeologico di Locri Epizefiri ci hanno portati a confrontarci costantemente proprio con questo tema.
La città fu fondata verso il 700 a.C. da coloni Greci sulle coste del Mar Jonio, nell’attuale Calabria. Una delle prime necessità dei nuovi arrivati fu quella di plasmare la forma del nascente insediamento: oggi sappiamo che lo schema urbanistico si adatta alla forma del territorio e al fluire delle acque verso mare. Dai profondi valloni tra le colline poste alle spalle della città che stava nascendo, ingenti masse d’acqua fluivano infatti a valle, costituendo una grave minaccia per gli spazi pubblici, gli edifici monumentali e le case della nuova comunità.
I nostri scavi in concessione MiBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), animati da un nutrito gruppo di studenti, dottorandi e assegnisti dell’Università di Torino e di altri atenei - italiani e stranieri - hanno messo in luce gli effetti devastanti delle alluvioni che hanno spazzato via case e costruzioni, che ora stiamo interpretando con l’aiuto di idrogeologi ed esperti del paleoambiente. Per i coloni locresi ci volle oltre un secolo di tentativi per creare canali artificiali in possenti blocchi di pietra, destinati ad accompagnare attraverso tutta la città, fino al mare, le acque provenienti dalle colline, contenendone la forza e riducendo il rischio di violente esondazioni.
Ma l’acqua è anche elemento di vita e di purificazione: proprio sull’argine di uno di questi canali, i Locresi realizzarono un vasto edificio munito di cortile dove si svolgevano atti cerimoniali connessi a riti prematrimoniali. Qui l’acqua costituiva un elemento fondamentale del passaggio di status delle giovani locresi dalla condizione nubile al ruolo di spose, e quindi di madri all’interno dei nuovi nuclei familiari. Pozzi per l’approvvigionamento, dispositivi per il rito, vasche e apprestamenti per i bagni rituali, vasi per le abluzioni: ecco il panorama dei rinvenimenti che ci permette di risalire all’uso dell’acqua in un contesto così importante per ricostruire aspetti fondamentali della società antica.
Sulla spinta di queste ricerche, si è avviato il progetto “La forza delle acque: tra risorsa e pericolo. Indagini su regimazione, raccolta, distribuzione, utilizzo, significato nel mondo greco e romano”, che coinvolge un gruppo di archeologi e storici antichi del Dipartimento di Studi storici.