Per il bene di chi? Le voci della liberazione dai manicomi
Dalla fine degli anni Sessanta in Italia il racconto pubblico dei manicomi ha iniziato a cambiare: grazie alle azioni del movimento anti istituzionale, degli psichiatri riformatori e grazie alle “voci” delle persone internate, la cruda realtà degli ospedali psichiatrici venne denunciata ovunque. A cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, la ricerca si interroga sulla storia della deistituzionalizzazione del sistema manicomiale a partire proprio dalle testimonianze di chi, per le ragioni più diverse, aveva attraversato quei luoghi di tortura.
Per molto tempo i manicomi sono stati luoghi chiusi, non solo per le persone che vi erano ricoverate, ma anche nelle immagini dell’opinione pubblica. In Italia, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, il loro racconto pubblico ha iniziato a cambiare grazie alle azioni del movimento anti istituzionale, degli psichiatri riformatori e grazie alle “voci” che iniziarono a oltrepassare i muri e i cancelli – materiali e immateriali – degli ospedali psichiatrici: le parole delle internate e degli internati – a cui era finalmente “restituita soggettività” – cominciarono così a diffondersi e a essere ascoltate, insieme a quelle di chi criticava l’“istituzione totale” e operava per rivoluzionare le culture della malattia e per modificare le pratiche della cura.
In periodi diversi, tali testimonianze hanno prodotto varie memorie della liberazione dal manicomio, memorie individuali e collettive formatesi a opera di singoli gruppi, dipendenti dai vissuti personali e professionali e dalle esperienze politiche, coltivate da precise comunità del ricordo, memorie condizionate dalle appartenenze di genere, legate a luoghi specifici, diffuse attraverso particolari dispositivi, canali e strumenti di comunicazione, che a loro volta hanno influito sulla formazione di narrazioni e di memorie pubbliche.
Nell’ambito del progetto Narrazione e cura. La deistituzionalizzazione del sistema manicomiale in Italia: storia, immaginario, progettualità (dal 1961 a oggi), un PRIN 2022 che vede la collaborazione del Dip. di Lettere, Lingue e Beni Culturali dell’Università di Cagliari, il Dip. di Studi Storici dell’Università di Torino e il Dip. di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, la ricerca si concentra appunto sulle memorie della deistituzionalizzazione in Italia e intende discutere, in particolare, forme e tempi attraverso cui le storie e le testimonianze personali del manicomio e del suo superamento sono state raccolte e usate dagli anni Sessanta a oggi.
Le “voci” – registrate, trascritte e divulgate prima, durante e dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici – sono quelle di pazienti, del personale medico, infermieristico e di cura, di operatrici e operatori sociali, delle assistenti sociali, di amministratrici e amministratori pubblici, membri di associazioni e cooperative. Sono testimonianze preziose anche quelle delle giornaliste e dei giornalisti, di scrittrici e scrittori, registe e registi, artiste e artisti, militanti, di architette e architetti chiamati a discutere le trasformazioni degli spazi: sono le voci di chi, per le ragioni più diverse, aveva vissuto, interamente o parzialmente, la lunga storia della deistituzionalizzazione italiana.
Esse hanno caratteristiche, origini e finalità molto diverse: vi ritroviamo, per esempio, le interviste audioregistrate o videoregistrate alle e ai testimoni, quelle montate nelle inchieste e nelle trasmissioni televisive o nei documentari, le interviste dei giornali, i libri di testimonianze, le registrazioni (sonore o audiovisive). Ci sono poi le trascrizioni (complete o parziali) di interventi in occasioni pubbliche o in riunioni di lavoro (per esempio cronache o verbali di riunioni, assemblee, manifestazioni, gruppi politici sui quotidiani, nelle riviste, negli archivi, ecc.), le trascrizioni di incontri personali (di cui si lascia per esempio traccia nelle cronache giornalistiche o in alcune pubblicazioni di denuncia), e ancora le testimonianze nei processi, le fonti (rielaborate) di romanzi, memoir, biografie e autobiografie, i filmati usati nelle esposizioni o negli allestimenti museali o schedati negli archivi, i colloqui clinici, la documentazione del lavoro sociale fino al girato mai montato per prodotti audiovisivi.
La storia torinese ci permette di fare qualche esempio, a partire da eventi in gran parte noti. L’occupazione e l’assemblea pubblica nel teatrino dell’ospedale psichiatrico di Collegno promossa a dicembre del 1968 dagli studenti di medicina, ritrovò larga eco sulla stampa perché, per la prima volta, vi parteciparono le persone ricoverate del manicomio, che presero pubblicamente parola:
Viva, drammatica, la voce dei ricoverati: «Qui a Collegno – ha detto qualcuno – l’assistenza non esiste, ci sono 15 medici per 4 mila malati». Altri si sono soffermati, con parole spesso rotte dall’emozione, sugli aspetti più deteriori e inumani: «Lo sapete che cosa è la famosa ergoterapia? Vuol dire che lavoriamo otto ore al giorno per 115 lire di paga». E c’è stato anche chi ha detto: «Spesso veniamo picchiati» (Stampa sera, 20 dicembre 1968).
Nel dare “voce” alle internate e agli internati, fu fondamentale il ruolo dell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali, che nel 1970 sollecitò l’inchiesta giornalistica de «L’Espresso» su Villa Azzurra, il manicomio dei bambini collocato all’interno dell’ospedale psichiatrico di Grugliasco. L’inchiesta s’intitolava Ma è per il suo bene (luglio 1970) e diventò famosa per le fotografie scattate all’interno del reparto da Mauro Vallinotto, che l’anno successivo, nel 1971, pubblicò con Einaudi un volume di denuncia molto importante: La fabbrica della follia. Il libro comprendeva l’autobiografia di un ricoverato, dalla cui lettura si evince il dramma dell’internamento:
In quel reparto si andava a dormire verso le ore 4 del pomeriggio fino alla mattina ore 8 (...). A letto chiuso in una cella con due fettucce, una a un piede l’altra alla mano. Si rinchiudeva la porta e fino alla mattina non si apriva più. Nella mia povera Mente e guardando verso il muro e piangendo da solo dicevo: perché mi devono trattare come un cane?
Infine, la documentazione e le testimonianze raccolte dall’associazione furono utilizzate per avviare lo storico processo allo psichiatra Giorgio Coda per le numerose violenze inflitte alle persone rinchiuse in manicomio. Il processo fu raccontato dal giornalista Alberto Papuzzi in Portami su quello che canta. Processo a uno psichiatra (Torino, Einaudi), ma anche le pagine di cronaca diedero conto delle testimonianze dei pazienti in aula. Le testimonianze dei pazienti, in proposito, sono agghiaccianti. Eccone alcune (omettiamo i nomi perché si tratta di persone oggi reinserite nella società, dopo una parentesi più o meno lunga trascorsa in manicomio).
A C: «Un giorno sono fuggito dall’ospedale, poi, pentito, sono tornato. Il prof. Coda mi ha fatto stendere su una rete metallica, mi ha praticato l’elettromassaggio alla testa. Durante il trattamento mi chiedeva il nome di chi aveva segato le sbarre per farmi fuggire. Io urlavo dal dolore, ad un tratto ho strappato gli elettrodi dalla testa. Lui allora mi praticò il massaggio in regione pubica».
C. R. A.: «Mi rifiutavo di lavorare; allora il prof. Coda mi mandò con gli altri, nel dormitorio, dove ci sottopose tutti, uno dopo l’altro, all’elettromassaggio. Sentivo gli altri urlare, ero terrorizzato. Mi gettai in ginocchio, lo supplicai di non farmelo. “Cedo ai suoi desideri – gridavo – andrò a lavorare, ma non mi faccia male”. Lui rispose: “No, adesso te ne faccio uno, poi vedremo”. Dopo, andai a “lavorare”: si trattava di lavare le macchine dei medici, per 500 lire alla settimana» (La Stampa, 4 luglio 1974).
Documenti come questi – voci in assemblea, fotografie, testimonianze orali, autobiografie – nel tempo sono diventate memorie. Proprio a partire da fonti analoghe, anche molto più recenti, la ricerca ha lo scopo di riflettere sui caratteri della memoria pubblica della deistituzionalizzazione e di studiare, mettendole a confronto, genesi e morfologie delle memorie individuali e collettive, di cui tratteggiare anzitutto connotazioni di genere, geografie, cronologie, circolazione (in Italia e all’estero), ricezione e forme attraverso le quali si sono trasmesse di generazione in generazione.
Gruppo di ricerca
Daniela Adorni, Eleonora Belligni, Filippo M. Paladini, Giuseppina Scavuzzo, Davide Tabor