Storie di ricerca

Il peso del colore: storie e sfide delle lavoratrici afrodiscendenti in Italia

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Approdi

La nostra ricerca analizza le esperienze lavorative delle donne afrodiscendenti in Italia, in particolare di quelle provenienti dall’Africa subsahariana e dal Corno d’Africa. A partire da una prospettiva di femminismo intersezionale, e attraverso numerose storie e dati raccolti, il progetto mette in relazione migrazioni femminili, carriere lavorative, responsabilità famigliari e attivismo, e sfida le rappresentazioni stereotipate che spesso ritraggono le donne afrodiscendenti solo come vittime oppresse. L’obiettivo è proporre una lettura più completa e realistica delle loro esperienze, e contribuire a riformulare i dibattiti e le politiche sulle pari opportunità.

A quasi un secolo dalle leggi razziali, studiose e studiosi si interrogano ancora su come bandire l’uso improprio del termine razza. Tuttavia, rimane fondamentale riconoscere, documentare e contrastare le discriminazioni che si manifestano lungo la linea del colore.
Questo tema ha nel femminismo una lunga storia, corale e transnazionale, che ha condotto all’approccio intersezionale. Quest’ultimo offre strumenti preziosi per comprendere come le oppressioni e le disuguaglianze nascano dall’intreccio simultaneo di molteplici identità e appartenenze - come l’etnia, il genere, la classe sociale - che ciascuna persona vive.

In questo contesto è nata la ricerca oggetto del libro Il peso del colore. Lavoratrici afrodiscendenti in Italia: un’analisi intersezionale, che ho scritto insieme a Giorgia Galante per Gabrielli, con la prefazione di Sabrina Marchetti e un contributo dell’Associazione Donne Africa subsahariana e II Generazione di Torino. 

Non esistono statistiche sociali basate sul colore della pelle, ma i dati disponibili mostrano che 

alcune donne affrontano svantaggi maggiori, sia rispetto agli uomini della stessa area geografica, sia rispetto a donne con altre origini. Questi svantaggi riguardano il salario, il livello di qualificazione, le interruzioni lavorative involontarie, il coinvolgimento sindacale.

Emergono anche significative differenze tra i diversi percorsi migratori: le donne sono meno presenti tra le persone provenienti da Paesi come Gambia, Mali, Senegal, Ghana, Costa d’Avorio, mentre sono più numerose tra chi arriva da Nigeria, Somalia e Eritrea. Inoltre, cambiano le condizioni tra chi arriva per ricongiungimento famigliare e chi per altri motivi.

Quali sono le cause di questi svantaggi? E come li fronteggiano le donne?
Per rispondere abbiamo unito le voci di professioniste che lavorano nei servizi con le storie di vita di donne nate in Italia, Senegal, Ghana, Angola, Nigeria, Somalia e Eritrea. Le intervistate sono diverse per generazione e carriera e vivono in Veneto e Piemonte, due regioni vivaci nel favorire l’intercultura e l’inserimento lavorativo femminile, con una presenza di afrodiscendenti superiore alla media nazionale. 

La forte presenza di donne nei lavori di cura, domestici e sessuali - meno tutelati e peggio pagati - è un esempio di “segregazione orizzontale”, termine con cui si indica la concentrazione di persone in certi settori lavorativi in base al genere o all’origine. 

Alla base di questa situazione ci sono la precarietà del loro status giuridico e il ruolo delle reti sociali: chi lavora in questi ambiti, spesso legati all’origine etnica, tende a veicolare informazioni limitate su come accedere al mercato del lavoro in Italia. Negli altri settori invece mancano, nelle parole delle intervistate, «corpi neri nello spazio».

Per le donne della prima generazione è complesso far riconoscere titoli di studio conseguiti all’estero, perché le procedure sono costose e aleatorie, spesso i titoli non corrispondono a ciò che richiede il mercato italiano e ci sono ancora pregiudizi sulle qualifiche ottenute in Africa.

Per le seconde generazioni non conseguire la cittadinanza italiana ostacola l’accesso al settore pubblico, e a questo aspetto si sommano le difficoltà che affrontano oggi i/le giovani nel mondo del lavoro in Italia.

Per le madri è spesso complicato conciliare gli orari del lavoro pagato con quelli di servizi educativi e scuole. Queste difficoltà sono acuite da contratti precari o informali e dalla poca consapevolezza dei propri diritti, a causa di barriere linguistiche, di comunicazione e accesso ai Servizi del territorio.

Queste condizioni generali variano anche in base alla posizione lavorativa propria e del partner, se presente, con differenze tra coppie miste, coppie di origine africana e donne single. Nelle coppie, le responsabilità del lavoro di cura sono più a carico delle donne, pur con differenze tra famiglie, mentre nel caso delle madri single è tutto sulle spalle di una sola persona.

Stereotipi e discriminazioni legati alla nerezza o all’indossare il velo islamico colpiscono anche le giovani nate in Italia e in settori qualificati. In questo contesto, il ruolo delle mediatrici culturali è cruciale per costruire un dialogo efficace con i servizi.

Anche se razzismo e sessismo non sono ancora stati superati, ci sono diverse strategie che possono funzionare: alcune donne puntano a ottenere titoli di studio riconosciuti nel mercato del lavoro internazionale (con le parole di una intervistata: “avere un titolo in più, comunque ti cambia”); altre lavorano per mantenere una forte autostima e una motivazione professionale (“non ho paura di nessuno, quello che faccio lo so io”); molte partecipano a reti femminili transnazionali per scambiarsi informazioni e risorse (“lavorando ho capito anche che cosa vuol dire politicamente promuovere i diritti delle donne straniere in generale; quel momento è stato molto importante, perchè un mio percorso, è cominciato da lì”). Negli spazi lavorativi dominati da uomini bianchi, alcune riescono a contrastare i pregiudizi usando l’ironia e cercando rapporti più paritari (“per pensarsi e progettarsi diversamente”).

Abbiamo inoltre riscontrato la nascita di imprese fondate da donne, che mettono a frutto le proprie competenze tecnico-professionali, transnazionali e linguistiche, e la partecipazione alla vita culturale, l’impegno nelle associazioni e nella produzione artistica, professionale e scientifica.
E se tutto questo non basta? Alcune valutano le migrazioni secondarie, cioè la possibilità di trasferirsi ancora in un altro Paese. Come del resto accade alle giovani di origine europea.

L’Italia rischia dunque di perdersi questi talenti?
Pensiamo che le istituzioni debbano e possano fare la loro parte per ridurre le disuguaglianze nel mondo del lavoro. Diversi passi avanti sono stati fatti, ma ce ne sono altri da compiere.

Il primo potrebbe essere quello di offrire incentivi alle imprese che assumono e valorizzano le donne: strumenti come la Certificazione di Genere e i benefit possono aiutare.
Un secondo aspetto consiste nel riconoscere il lavoro di cura come un asse portante non solo di tutte le famiglie, ma anche di tutte le società e economie, soprattutto in un Paese che sta invecchiando.
Un terzo punto riguarda il monitoraggio e il contrasto alle disuguaglianze, attraverso azioni come le discriminazioni positive (cioè intenzionalmente pensate per riequilibrare situazioni di disuguaglianza per favorire gruppi svantaggiati), la formazione e il lavoro in rete.


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Anche il modo in cui facciamo ricerca può migliorare, mettendo al centro la reciprocità, intesa come restituzione in varie forme dei risultati emersi, anche a chi prende parte alla ricerca, per aver donato la propria storia, il proprio tempo e le proprie emozioni e competenze. Reciprocità, rispetto dell’autodeterminazione delle partecipanti e consapevolezza che ogni sapere nasce da punti di vista situati e posizionati, sono elementi chiave di etica della ricerca, e contribuiscono a creare rapporti tra partecipanti più simmetrici e autentici.