Può la finanza essere motore dell’innovazione sostenibile?
Sono numerose le ricerche dedicate a nuovi canali di finanziamento delle start-up, e lo stesso si può dire rispetto al tema della sostenibilità nel diritto dell’impresa. Più scarsi sono invece i risultati quando i due temi si intersecano. Questa linea di ricerca mira quindi a indagare se, e come, il criterio della sostenibilità trovi spazio nella costruzione del modello di business delle società innovative, e se questo obiettivo possa essere incoraggiato e supportato dai soggetti che le finanziano
Le start-up sono delle società neo-costituite che hanno come obiettivo imprenditoriale la realizzazione di un progetto innovativo. Come è facilmente intuibile, uno dei maggiori problemi che queste società e i loro fondatori “visionari” fronteggiano è quello di reperire capitale per lo sviluppo del proprio programma.
D’altro canto, gli investitori sono generalmente più propensi a finanziare società già solide e ben avviate, essendo in grado di valutarne, con un certo margine di certezza, prospettive reddituali e possibili rischi (e, quindi i guadagni che potranno ricavare dal loro finanziamento). Cionondimeno, anche l’investimento in progetti innovativi che, una volta sviluppati potrebbero avere amplissimo successo proprio grazie all’elemento di novità che portano, potrebbe rivelarsi altamente profittevole: per questa ragione - e sempre di più negli ultimi anni - il mercato ha assistito all’emersione di soggetti specializzati nel finanziamento di queste realtà imprenditoriali, i cosiddetti venture capitalist.
Si tratta di investitori che, con le poche informazioni che una neonata impresa può mettere loro a disposizione, decidono di investire nelle prime fasi del suo sviluppo, sopportando, quindi, un maggior rischio collegato al fatto che il risultato innovativo che la società voleva raggiungere si riveli irrealizzabile, portando al suo fallimento con la potenziale perdita di tutto il capitale investito.
Per tutelarsi da questi maggiori rischi, i venture capitalist pretendono una serie di garanzie idonee a mitigare i rischi di asimmetrie informative e opportunismo - il cosiddetto moral hazard - dei fondatori: questi infatti potrebbero nascondere informazioni circa il reale andamento del progetto o, una volta ricevuto il finanziamento, utilizzarlo in maniera non idonea.
I contratti di finanziamento proposti, dunque, contengono sia clausole che guardano all’interesse meramente economico, che garantiscono ai venture capitalist di recuperare, almeno in parte, il proprio investimento in caso di insuccesso dell’iniziativa, sia clausole di natura amministrativa, che permettono loro di avere voce in capitolo sulle scelte strategico-organizzative o, quantomeno, di controllare le fasi di sviluppo del progetto anche in vista della concessione di ulteriori round di finanziamento.
La linea di ricerca che sto seguendo mira a sondare come questi diritti particolarmente pervasivi, e tipici solo di questo modello di finanziamento, possano essere utilizzati anche per favorire l’inclusione degli obiettivi di sostenibilità definiti dall’Unione Europea nella struttura organizzativa delle start-up già dalla loro nascita.
Infatti, le piccole imprese di per sé non avrebbero alcun vincolo in questo senso, poiché l’adeguamento sarebbe per loro troppo oneroso; d’altro canto, occorre considerare che la normativa europea impone a tutte le grandi società obblighi di comunicazione al mercato di informazioni non finanziarie, in particolare, i fondi hanno l’obbligo di rendere pubblici gli indici di sostenibilità che considerano al momento della scelta delle società in cui investire. La necessità di adeguamento a questa normativa (e le ripercussioni in termini reputazionali - e poi di valore - sul mercato qualora non lo facessero) può essere un valido incentivo per il fondo, che potrebbe dunque aver bisogno di strumenti contrattuali più o meno coercitivi per veicolare e/o monitorare l’implementazione degli obiettivi ESG (environmental, social, governance) nelle società finanziate.
Sulla scorta di queste considerazioni, la ricerca si propone di guardare ai diritti amministrativi più classici (diritto di nomina di un membro del CdA della start-up finanziata) o a quelli più innovativi e in via di diffusione (nomina di un mero osservatore esperto che partecipi ai consigli di amministrazione), alla loro possibile strutturazione e ai problemi connessi, in relazione al raggiungimento di obiettivi di sostenibilità. Per esempio, la nomina di un osservatore che sia anche esperto sui temi di sostenibilità consente al fondo di fornire consulenza tecnica su questi temi alle start-up, che non ne sono per forza esperte, e, al contempo, di avere un soggetto che ne monitori l’attuazione tramite la partecipazione ai CdA (pur senza diritto di voto, il che peraltro lo solleva anche da tutti gli eventuali problemi in punto di responsabilità).
Ciò servirà non solo e non tanto a tutelare il fondo, ma potrà avere ricadute estremamente positive per le nuove start-up, che sole non avrebbero incentivi né risorse da dedicare a questi profili. Il supporto del fondo e dei suoi esperti potranno aiutarle a crescere e strutturarsi con un occhio di riguardo anche alla sostenibilità, tema a cui i mercati sono sempre più attenti (ma anche vincolati a prestare attenzione!) nel direzionare gli investimenti verso progetti sostenibili.