Un porto sicuro tra le Alpi: intervista a Martina Cociglio, operatrice al Rifugio Massi di Oulx
Oulx è un piccolo borgo montano che si trova in Alta Val Susa e per la sua posizione, al confine tra Italia e Francia, è sempre stato luogo d’incontro tra popoli. Oggi ad attraversare il Monginevro sono decine di migranti, ma per loro la frontiera diventa spesso un muro invalicabile. Nel 2018 in una struttura vicino alla stazione è nato il Rifugio Fraternità “Massi", un punto di approdo per chi, nel lungo e tortuoso viaggio verso una vita migliore, ha bisogno di una sosta. Negli anni è diventato anche un osservatorio delle dinamiche migratorie sul nostro territorio. Ne parliamo con Martina Cociglio, operatrice dello sportello legale di frontiera di CSD-Diaconia Valdese presso il Rifugio.
Le migrazioni sono un tema sempre vivo nelle cronache e nella propaganda politica. Quelle che fanno più notizia sono le migrazioni che seguono la via del mare, soprattutto gli eventi dagli esiti tragici come i naufragi, ma ci sono anche migliaia di migranti che provano ad attraversare le nostre Alpi per raggiungere il paese dove sperano di ricominciare da capo una vita migliore.
Martina, in cosa si distingue questa migrazione da quella via mare?
Le persone in transito al confine alpino piemontese hanno alle spalle un viaggio via terra, lungo la rotta balcanica, o via mare, dalla Tunisia o dalla Libia, oppure ancora dalla Turchia. Decidono di proseguire per ricongiungersi a familiari o a reti di connazionali nel centro o nord Europa, oppure si allontanano in cerca di diritti, accoglienza e welfare che in Italia non hanno trovato. In termini di traumi vissuti, le testimonianze di chi si è perso in montagna nell’attraversamento tra Claviere e Briancon non sono tanto dissimili da quelle dei sopravvissuti a un naufragio in mare. Non si stenta a crederlo se si immagina un paesaggio innevato, buio, la forte paura di essere intercettati dalla gendarmerie che pattuglia i sentieri, oltre alla sensazione di disorientamento totale nel freddo della notte che ti avvolge ed entra senza pietà nei vestiti, nei guanti e negli scarponi.
Il Rifugio Fraternità Massi di Oulx è un “porto sicuro” per migliaia di persone in transito lungo il confine tra Italia e Francia. È attivo dal 2018 grazie a diverse realtà come Talitá kum, Rainbow4Africa, On Borders, Medu, Croce Rossa e la Diaconia valdese per cui lavori. Ci racconti in breve cosa fate per le persone migranti? Quali sono le competenze e le professionalità messe a disposizione?
Il Rifugio Fraternità "Massi" accoglie le persone che si preparano a partire per Briancon oppure che tornano respinte dalla polizia francese dal Monginevro e dal Frejus. Al rifugio trovano operatori e operatrici che non chiedono loro i documenti, ma li informano della possibilità di dormire una notte e ricevere un pasto caldo. Trovano poi i volontari che si prodigano perché le persone possano partire in sicurezza: al Rifugio è presente un magazzino che grazie alla solidarietà di molti è ricco di scarponi, guanti, giacche, pantaloni e maglie di tutte le taglie. Trovano, ancora, un ambulatorio medico che offre a tutti la possibilità di uno spazio di cura: per molti rappresenta un luogo in cui dare parola alle sofferenze fisiche e psicologiche accumulate nel tempo del viaggio o della permanenza in Italia.
C’è infine lo sportello legale gestito da noi, la Diaconia Valdese, in cui diamo informazioni sull'accesso ai diritti e prendiamo in carico i casi da un punto di vista sociale e giuridico, quindi ci occupiamo delle domande di asilo e dei permessi di soggiorno, dell’ingresso in accoglienza istituzionale, ma non solo.
Chi sono le persone che aiutate in questi complicati iter, che storie hanno?
Le nazionalità maggiormente incontrate quest’anno sono il Sudan, l’Eritrea, l’Etiopia, il Marocco, la Tunisia. Tanti sono minori stranieri non accompagnati. Scappano dai conflitti, sempre in aumento, o dalla povertà causata dalla crisi climatica. La maggioranza delle persone che incontriamo sono in strada, vivono nel limbo dell’attesa che può durare mesi e mesi prima di poter accedere alle questure e ai centri di accoglienza. Sono per lo più regolari perché chiedono asilo ma, proprio per la difficoltà di accesso agli uffici e per le tempistiche lunghe, il fatto di non avere un pezzo di carta fa sì che non possano neanche andare nei dormitori per senza dimora.
Oltre a questi ci sono coloro che abbandonano i centri in cui sono stati collocati dopo lo sbarco, dove mancano servizi dignitosi e tutelanti rispetto al diritto alla salute, all’informativa legale, al supporto psicologico. Tutti sono vulnerabili perché anche chi parte sano si ammala lungo le estenuanti rotte. Le vulnerabilità, però, soprattutto quelle psicologiche/psichiatriche, faticano a trovare spazio nel circuito dell’accoglienza. È fondamentale allora un lavoro in equipe e in rete con gli altri attori del territorio per una presa in carico che sia il più possibile multidisciplinare, nell’attesa che dalla frontiera le persone riescano a essere collocate, quando possibile, presso progetti adeguati.
Che impatto ha la vostra azione sul territorio? Come viene recepita dalla comunità locale?
In Val Susa la tutela delle vite di tanti che si incamminano in montagna è condivisa dalle associazioni, enti, volontari e cittadini comuni che ruotano intorno al rifugio. Non ricordo episodi di particolare opposizione. Noi andiamo avanti tenendo sempre a mente le motivazioni all'origine di questo transito: i confini sempre più chiusi, esterni e interni all’Unione Europea, e un accesso al diritto sempre più ostacolato sono alla base di questo movimento invisibile ma estremamente costoso in termini di rischio per la propria vita.
Vi capita di collaborare con le Università?
A Oulx negli anni sono passati tanti ricercatori e ricercatrici. Il loro sguardo è utile perché si aggiunge al nostro e ci aiuta a portare alla luce quanto accade con approcci e linguaggi complementari. Spesso sui media si parla di Oulx e Ventimiglia in maniera strumentale senza far emergere quanto invece questi luoghi ai margini rappresentano davvero la cartina tornasole dell’assurdità e brutalità dei confini chiusi.
Per chiudere: c’è una storia, un aneddoto particolare che racchiude il senso del tuo lavoro?
Sicuramente l’incontro con I., un ragazzo di 25 anni che durante la rotta dal Camerun alla Turchia, e poi nel viaggio attraverso la Grecia e i Balcani, ha scritto ben 418 pagine: ha raccolto le voci delle donne camerunensi costrette in relazioni matrimoniali. “Quando la polizia croata al confine con la Bosnia mi ha picchiato e derubato del telefono e del computer, la prima cosa che ho pensato - mi dice - è che avevo perso tutte quelle parole. Sono poi riuscito a recuperarle tramite un file salvato online”. Alla fine mi domanda quale paese dell’Unione Europea tuteli maggiormente i diritti delle persone LGBTQ+. Il suo sogno è poter finalmente essere se stesso e vivere in un posto dove l’amore non è una costrizione ma una libertà.