L’alt(r)a Provenza di Jean Giono: le Alpi occidentali come terra senza confini
Jean Giono, chi è? Per molti, figura ai margini dei Maestri del Novecento francese, non facilmente classificabile nel panorama letterario. Finalmente riscoperto dalla critica, è riletto oggi da più prospettive, dal pacifismo all’ecologia. A lungo però subisce il cliché di autore regionale, perché nella sua vita poco si allontana dalla sua Manosque e dei luoghi che si dipartono da Manosque tratta nella maggior parte delle sue opere. Manosque: ed è subito Provenza. Ma quella di Giono è un’alt(r)a Provenza: perché «la montagne est ma mère» e le Alpi occidentali, quelle che sovrastano l’area franco-italiana, sono un mondo fatto di spazi e genti che si incontrano.
Jean Giono, romanziere prolifico che attraversa buona parte del XX secolo, scrive, parlando di sé, nel Voyage en Italie: «la montagne est ma mère». Eppure egli nasce, vive e muore a Manosque, comune alle porte del Luberon, tra piane fertili e colline, ulivi e distese di lavanda, con una città vecchia dalle fattezze tipicamente provenzali: piazze all’ombra dei platani abbellite da fontane e bistrot con i tavoli all’aperto, viuzze pittoresche su cui si affacciano antiche dimore, colori e ritmi che annunciano atmosfere del Midi.
L’autore de Le Hussard sur le toit (L’ussaro sul tetto), probabilmente la sua opera più nota, pur ambientando molte vicende dei suoi romanzi in Provenza, guarda in realtà sempre alle Alpi. Più che di una Provenza generica e oggi persino standardizzata nell’immaginario turistico, si tratta infatti dell’Alta Provenza; diremmo di un’altra Provenza, lontana dalla cartolina delle bastide - la tipica casetta di campagna - dalle ante colorate, dal frinire delle cicale e dalla mite brezza che già sa di mare, il Mediterraneo poco distante, quello della mondana Costa Azzurra.
Gran camminatore, invece di scendere verso la costa affollata da un turismo prepotente fra cui non è a suo agio, Giono ama salire, addentrandosi in quel territorio francese che si fonde con i versanti del Piemonte da cui proveniva il nonno paterno, “carbonaro” conosciuto solo attraverso i ricordi familiari, emigrato nel cuore dell’Ottocento nel Sud della Francia.
Guarda anzitutto alla grande montagna “blu” vicino a casa, il Lure, massiccio austero sotto cui si passa spesso senza prestare attenzione, ma che è lì a ricordare ai tetti soleggiati dei ridenti villaggi della Durance che la natura più selvaggia va rispettata e sfugge alle leggi umane, e rammenta che nelle armonie eterne tra essere umano e ambiente dimorano Les vraies richesses, formula che dà il titolo a uno degli scritti più intensi, ancorché troppo poco letto, di questo autore a lungo e a torto classificato come regionalista.
Giono guarda poi alle Alpi, alle vette imponenti che trasfigura in più occasioni in enormi zollette di zucchero: accidentate, faticose, eppure capaci di trasmettere un sapore di dolcezza in chi, come un fanciullo, le ammira e le rispetta; luminose e cangianti per il biancore che riflette il sole e il cielo; verdi e nere, perché manifestazione della vita che rinasce ogni anno con vigore a primavera, e nel contempo memoria cupa della fine di ogni ciclo in una morte che, però, diversamente dalle umane cose, ogni anno sarà superata da un nuovo inizio, come leggiamo in Le chant du monde (Il canto del mondo) e nel Portrait de l’artiste par lui-même.
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Per nulla edulcorata e idealizzata, senza stereotipizzazioni che la ritraggono come edenica o bucolica, la montagna pre-alpina e alpina raccontata da Giono, e che possiamo esplorare mentre leggiamo i suoi libri e passeggiando, in una declinazione alternativa del turismo letterario, è anzitutto la rappresentazione palese delle forze della natura, tutte fuse insieme: la terra, da quella coltivabile alle rocce scoscese; l’acqua, dalle brume ai torrenti fino ai ghiacciai e ai nevai; l’aria, nel vento talora rigenerante, talora violento e pericoloso; il fuoco, per la presenza forte del sole e della luce. Ce lo ricordano capitoli suggestivi di suoi romanzi celebri, come Colline (Collina), ma anche passi intensi delle sue prose brevi, come Hiver e Hortense.
La montagna dunque ospita e incute timore, regala bellezza, sollievo, vitalità, meraviglia, risorse, e nel contempo ammonisce. Come una madre, è tenera e rigorosa, unisce e concilia, attira a sé e lascia andare. La montagna di Giono mai separa: collega e mantiene forti i legami, anche nelle distanze e in mezzo alle vicissitudini, tra terre e genti.
Le Alpi che si intravedono da Manosque, che egli raggiunge nel tempo della villeggiatura, e che sale il giorno in cui si decide a valicare il Monginevro per un viaggio in Italia sulle orme del nonno e nei luoghi degli uomini di lettere, d’arte e di pensiero studiati e amati, rappresentano non un confine politico, linguistico, culturale, bensì una dimora di relazioni: tra paesaggi, vicende storiche, persone, parlate, tradizioni, abitudini, libri, arti.
Così, nelle sue narrazioni, dove spesso si diverte a giocare con la cartografia, “spostando” villaggi e adattando i toponimi, incontriamo scorci di un passato nemmeno tanto lontano, quello dei “piémontais” che si trasferivano stagionalmente nelle vallate dell’Ubaye e nell’Alta Provenza in generale, menzionati in Regain (Risveglio) e ne Le Serpent d’étoiles (Il serpente di stelle). Insieme ai suoi personaggi esploriamo borgate dai nomi di fantasia che, da lui collocate nell’Isère, possiamo, pur non trovandole su una mappa, identificare con comunità del versante italiano.
Sullo sfondo delle stagioni, e procedendo con le trasmutazioni del paesaggio, seguiamo storie che fanno riflettere sull’epopea umana del lavoro in cornici rurali, come in Batailles dans la montagne, sulle relazioni interpersonali in piccole collettività unite dai lavori agricoli, come in Jean Le Bleu (Il ragazzo celeste), sul mistero del male che colpisce e affligge tutti, cattivi e buoni, grandi e umili, come in Un roi sans divertissement.
Vicende semplici, con tratti familiari, in luoghi dove reale e possibile si mescolano, e che proprio per questi aspetti “ci parlano”. Miti antichi in cui riecheggia la lezione della classicità e leggende celtiche che punteggiano i due versanti dell’arco alpino affiorano - si pensi alle declinazioni dell’“uomo-albero” che punteggiano diverse sue prose - e si intrecciano costantemente in eroi della quotidianità che popolano un mondo vero e verosimile: mai pretesa fotografia della realtà geografica, lo studio della narrativa è un percorso tra memoria, evocazione e rielaborazione creativa di luoghi, fatti e caratteri autentici e familiari, radicati in una regione d’Europa il cui perimetro, ci ricorda Giono, non è mai netto, e in nessun caso segna una cesura: si perde, sfumato, mutando gradualmente, nelle aree vicine, recando qualcosa con sé.