Ogni incontro una rivelazione. La letteratura che decolonizza la mente
Università di Torino, 1985, una delle sole cinque cattedre in Italia di Letteratura anglofona postcoloniale, del professore emerito Claudio Gorlier, favoriva la ricerca sulle letterature d'Africa. Da allieva allertata alla “decolonizzazione della mente" (Wa Thiong’o), ogni ricerca è stata un incontro: la traduzione del premio Nobel J.M. Coetzee, un Freedom Fighter ascoltato a un convegno e molto altro.
Da studentessa universitaria ascoltavo le lezioni del professor Claudio Gorlier, incentrate, tra gli altri, sui romanzi Things Fall Apart (1958) del nigeriano Chinua Achebe (1930-2013) e A Grain of Wheat (1967) del kenyano Ngugi Wa Thiong’o.
Si tratta di autori che si sono rivelati fondamentali per una sorta di “rivoluzione copernicana” del pensiero postcoloniale, una vera e propria svolta de-coloniale, prima della teorizzazione dello studioso sudamericano di origini piemontesi Walter Mignolo (On Decolonaility, 2018). L’accesa critica di Achebe verso Joseph Conrad (1857-1924) e l’altrettanto animosa critica di Wa Thiong’o verso Karen Blixen (conosciuta anche con il suo nome di nascita Isaak Dinesen 1885-1962) erano appelli a quella che più tardi quest’ultimo teorizzò come la “decolonizzazione della mente”.
L’ormai famosissimo saggio di Achebe An Image of Africa: Racism in Conrad’s “Heart of Darkness” del 1977 metteva in discussione il grande classico della letteratura inglese e capolavoro acclamato del Modernismo, smontando le immagini di un’Africa descritta come oscura e avvolta nelle nebbie, misteriosa e abitata da ombre prive di voce. Non l’Africa reale, ma un’immagine vaga, elevata a simbolo di una incomprensibilità, indicibilità e inimmaginabilità che molto dicevano invece dell’incapacità dell’uomo medio europeo - tale è il personaggio di Marlow, narratore del romanzo di Conrad Cuore di Tenebra (1899) - di vedere e comprendere la realtà africana, pur cogliendo invece le implicazioni violente del colonialismo.
Ngugi Wa Thiong’o pubblicò, poi, il saggio Her Cook, Her Dog (1980) in cui criticava le pagine scritte da Karen Blixen nel celebre romanzo autobiografico Out of Africa (La mia africa, 1937); qui, secondo Wa Thiong’o, la scrittrice danese si esprimeva nei confronti del suo cuoco africano con razzismo malcelato, sottolineando di averlo addomesticato e ammaestrato ma non completamente, mostrando per contro più rispetto per il proprio cane. Il suo amore paternalista rendeva quel romanzo, secondo Ngugi Wa Thiong’o, “il più pericoloso scritto europeo sull’Africa e sul Kenya”.
Si tratta di un ribaltamento di prospettiva in cui la pratica ha preceduto l’astrazione teorica: i due saggi di Achebe e Wa Thiong’o sui classici europei del colonialismo erano delle lezioni pratiche di smontaggio, lettura e commento analitico di un testo letterario, secondo una pratica critica decoloniale. Il saggio teorico Decolonising the mind. The Politics of Language in African Literature (1986) che Wa Thiong’o pubblicò qualche anno più tardi giunse a coronamento di un discorso portato avanti con coerenza dallo scrittore che ha abbandonato progressivamente l’inglese per tornare al Gikuyu. Questa scelta gli è costata il carcere e l’esilio, ma ha ristabilito una lingua africana quale lingua letteraria, operando un decentramento linguistico dell’inglese, quale lingua coloniale.
Questa forma di rilettura dei classici europei “radicale” e “copernicana” mi è tornata alla mente in un’altra occasione, quando a Vienna, durante un convegno, ho avuto la possibilità di ascoltare un Freedom Fighter sudafricano. La sua testimonianza raggelò il pubblico: subito dopo il suo lungo e appassionato intervento ci furono lunghi minuti di silenzio imbarazzato. Nella sua arringa aveva domandato chi avesse letto il reportage della scrittrice sudafricana Antjie Krog, The Country of My Skull (1998), poi divenuto un film di successo con protagonista Juliette Binoche (2004): l’80 per cento della platea aveva alzato la mano. Sconcertato, ci disse che avevamo sbagliato tutto: quello che a noi sembrava un “must”, perché ci informava sulle audizioni della Truth and Reconciliation Commission dopo la caduta dell’apartheid, a lui appariva come l’indebita appropriazione di una afrikaner [africana di discendenza olandese, NdR] che aveva citato, tagliato, adattato e infine interpretato quelle deposizioni dolorose, senza il dovuto rispetto per chi le aveva esposte per giorni, magari dopo averle preparate, scritte, perché non vi fossero fraintendimenti e potessero restare agli atti. Noi, l’élite degli studi postcoloniali in Europa e non solo, restammo tutti in ossequioso silenzio. È stato uno dei convegni sulla letteratura sudafricana più interessante a cui io abbia partecipato.
Questi incontri con la letteratura e la storia dell’Africa sono state per me lezioni su come praticare una lettura critica non superficiale, non scontata, soprattutto non eurocentrica, per quanto possibile. E se guardiamo alla scelta compiuta dal premio Nobel sudafricano J.M. Coetzee (2003), che ha pubblicato i suoi due ultimi romanzi prima in traduzione spagnola - El Polaco (2022) e La muerte de Jesús (2018) - per sfuggire all’imperialismo, anche dell’industria culturale, di lingua inglese, comprendiamo la piena portata del discorso di Ngugi Wa Thiong’o sull’importanza e la dignità delle lingue africane.
Ma queste scelte spiazzano noi lettori, ci scuotono dalle nostre comode abitudini, ci richiedono di diventare poliglotti, aperti al mondo. E ripenso con nostalgia al mio incontro con la traduzione quando, dopo gli anni di dottorato, fui invitata a lavorare sul romanzo di J.M. Coetzee Age of Iron (1990, Età di ferro, 1995). Questo faccia a faccia col testo, che accettai con/per incoscienza, era per me un sogno. Potevo immergermi nello studio, nella lettura e nell’interpretazione di questo romanzo bellissimo, dopo aver scritto la mia tesi di laurea sui suoi primi capolavori acclamati. Non aveva ancora vinto il Nobel, ma era nell’aria. Prima di arrivare a quello, Coetzee con quel romanzo vinse il Premio Feronia Città di Fiano nel 1995 e così il professor Gorlier e io fummo invitate/i alla cerimonia. Famoso per la sua ritrosia, durante il viaggio in taxi da Roma a Fiano, con noi Coetzee fu amabile; era chiaro che non voleva domande sul Sudafrica, né su di sé; parlò volentieri, invece, di suo padre, che aveva partecipato con le truppe alleate alla guerra di liberazione in Italia.
A proposito dell’Italia, e del nostro colonialismo, sono particolarmente grata al poeta sudafricano Denis Hirson - con cui avevo esordito nel mondo delle recensioni parlando del suo bellissimo romanzo autobiografico La casa accanto all’Africa (1990). Del suo lavoro su e con l’artista sudafricano William Kentridge, vorrei qui riproporre un estratto sull’operato non certo onorevole dell’Italia in Abissinia:
“There was a question when we were doing Black Box as to how didactic it should be. It was astonishing when it was shown in Germany, how many people had no idea of that particular history. And it’s interesting that, I think, only in 1996 did the Italian air force admit to bombing with gas in the Abyssinian campaign; up until then it had been denied and some sections of the Italian army still deny it.”
(Footnotes for the Panther. Conversations between William Kentridge and Denis Hirson 2017; 32).
Un volume che è stato un altro dono, un altro incontro, con artisti sudafricani esuli, che ci esortano a tornare con sguardo critico alla storia coloniale italiana in Africa e a non dimenticarla. Una lezione che ci arriva dal Sudafrica, un altro invito a decolonizzare la mente, che ci scuote. Africa writes back!