Quando i ghiacciai camminano: storia di un popolo nell’estremo nord del Canada
Attraverso la lettura del saggio di Julie Cruikshank dedicato alle ultime testimonianze orali delle popolazioni del Canada e del Nord America, prende vita la storia delle “montagne che camminano”. Si tratta di ghiacciai che, per specifiche condizioni geomorfologiche, si spostano creando devastazione tra le popolazioni. I segni di questi eventi drammatici si leggono nelle storie di questi popoli di migranti climatici ante-litteram, e permettono di esplorare come fenomeno culturale le relazioni tra essere umano e natura, in una zona peculiare del nostro pianeta.
Ci sono popoli che hanno conosciuto l’apocalisse e hanno rasentato l’estinzione. Si tratta delle popolazioni cosiddette First Nations People del Canada e del Nord America, il cui destino non è stato tanto diverso da quello di altri popoli indigeni colonizzati nel resto del mondo. Il poeta canadese Robert Bringhurst ha ricostruito e trascritto i poemi mitologici del popolo Haida che vive sulla costa occidentale del Canada, nell’arcipelago delle Queen Charlotte Islands, a ovest della baia di Vancouver, in British Colombia, o Haida Gwai. Lo scrittore afferma che tali popoli hanno esperito un vero e proprio olocausto; distruzioni materiali, morte per infezioni virali, ma soprattutto una violenta e ininterrotta guerra culturale:
La guerra culturale è pratica antichissima, forse tanto antica quanto la cultura stessa. Eppure morte e rieducazione forzata hanno colpito gli Haida con una forza dirompente. Gli europei, per quanto ne sappiamo, hanno sperimentato una simile guerra culturale in forma altrettanto violenta per intensità e durata solo quando Stalin e Hitler hanno avviato i loro campi. (Bringhurst 1999, 70; traduzione mia)
Gli Haida erano un popolo costiero di navigatori, erano pescatori e quando incontravano i popoli dell’entroterra e delle montagne, per esempio i Tlingit del Nord, scambiavano con questi prodotti e manufatti, attrezzi e conoscenze. La mescolanza fra i due popoli ha fatto sì che la tradizione Tlingit, anche quella folclorica, mitica e narrativa, sia fortemente presente nella cultura orale Haida.
In una zona molto particolare del Canada, le Saint Elias Mountains, che segna il confine tra British Columbia, Yukon e Alaska (USA), si ergono alcune cime ghiacciate che hanno segnato il destino e l’emigrazione dei Tlingit verso la costa a causa di ghiacciai capricciosi, chiamati “surging glaciers”, che hanno generato dei veri e propri migranti climatici ante litteram.
A parlarne è il bellissimo saggio di Julie Cruikshank, “Do Glaciers Listen? Local Knowledge, Colonial Encounters, & Social Imagination” (2005). L’autrice ha intervistato le/gli ultime/i eredi di narrazioni orali che testimoniano dello spostamento dei ghiacciai, capaci di avanzare, sommergere e “ingoiare” terre e pascoli, per poi causare inondazioni e creare laghi durante la loro fusione e la loro ritirata, e dello spostamento inevitabile di essere umani e animali.
Il fascino di queste testimonianze orali risiede soprattutto in alcune scoperte fondamentali che riguardano la nostra epoca, il cosiddetto Antropocene:
L’esperienza dei popoli nativi rafforza la visione secondo cui umani e natura compartecipano alla creazione e al sostentamento del mondo abitabile, una visione ora condivisa anche dagli storici ambientalisti. (Cruikshank 2005, 3; traduzione mia)
Non sono solo i ghiacciai, con il loro comportamento, a muoversi, ma anche interi clan. In tal senso i ghiacciai agiscono e interagiscono con gli umani e i non-umani condizionandone l’esistenza, la sopravvivenza, l’esilio e il ritorno; sono attori agenti, sorprendenti per le loro qualità e il loro temperamento:
I ghiacciai appaiono come attori in questo libro. [...] i ghiacciai agiscono deliberatamente e rispondono a ciò che li circonda. Sono sensibili agli odori e ascoltano. Sono capaci di considerazioni morali e puniscono le infrazioni. Alcuni tra gli anziani che li conoscono molto bene li descrivono sia come animati (dotati di vita) sia come capaci di proprietà generative (donare vita) verso i paesaggi che essi abitano. (Cruikshank 2005, 3; Traduzione mia)
Ancor più interessante è l’onomastica legata ai ghiacciai; nomi eloquenti vengono assegnati dalle popolazioni native ai ghiacciai per designare presenze amiche, ma irascibili, monumenti naturali utili per l’orientamento, eppure pericolosi e permalosi. La loro onomastica è una nomenclatura-orientata-all’azione:
Il sostantivo in lingua Tlingit per ghiacciaio è “sit”. Nella lingua degli Atapaska del Sud, sul versante canadese delle montagne, i nomi sono tän shäw (“tän” ghiaccio + “shäw” grande) o “tän shi” (sotto la fronte del ghiacciaio). Entrambe le lingue enfatizzano l’azione e il movimento, senza fare distinzione tra animato e inanimato. [...] le azioni sono spesso attribuite a entità, come i ghiacciai, a cui i parlanti inglesi attribuirebbero natura inanimata. (Cruikshank 2005, 3; Traduzione mia)
La storia narrata da Cruikshank comincia con la Piccola era glaciale, che nel Canada del Nord-Ovest coincide con il periodo tra il 1550 e il 1900. I protagonisti sono ghiacciai di montagna che nei periodi più freddi si attivano, scendono sino alle spiagge della costa e sbarrano i passi più alti. I ghiacciai della catena montuosa Saint Elias sono le più vaste distese di ghiacci non polari a includere un certo numero di ghiacciai che si spostano indipendentemente dal clima. Alcuni scienziati ritengono che il surging - il sollevamento - dei ghiacciai sia dovuto a deformazioni del loro substrato, fenomeni che coinvolgono le acque e i depositi subglaciali, tilliti, sottoposti ad alte pressioni. Questo tipo di ghiacciai può avanzare senza preavviso, repentinamente, dopo periodi di lunga quiescenza, talvolta per molti chilometri; frequentemente crea dighe ghiacciate sui laghi, facendone straripare l’acqua con conseguenze catastrofiche quando il ghiaccio si assottiglia e la diga si rompe. L’impatto dei ghiacciai sulla storia locale e regionale non è dovuto solo alla loro massiccia e mutevole presenza fisica, bensì anche al loro contributo nell’alimentare l’immaginazione popolare.
Alcuni racconti tramandati di generazione in generazione dai clan Tlingit spiegano come, per esempio, non si possa cucinare del grasso animale in prossimità di uno di questi ghiacciai, poiché sarebbe offeso dall’odore e potrebbe muoversi e ricoprire l’intera regione per vendetta.
Un altro tabù che circola tra le popolazioni locali impone di non irridere e non dire frasi irriverenti al ghiacciaio, che si offenderebbe e agirebbe riversandosi su villaggi, fauna e flora. Questo sapere, basato sull’esperienza e sull’osservazione è definito TEK (o traditional ecological knowledge), oppure IK (indigenous knowledge). Mentre i colonizzatori europei giunti verso la fine della Piccola era glaciale vedevano i ghiacciai quale espressione della natura selvaggia e primitiva, le popolazioni Tlingit e Atapaska li consideravano invece come spazio intensamente sociale, dove il comportamento umano, specialmente una hubris, un’arroganza anche casuale o non consapevole, poteva innescare conseguenze drammatiche e spiacevoli per la geofisica del territorio.
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La zona di confine montuoso e ghiacciato tra Canada e Stati Uniti è ora una zona protetta dall’Unesco. Le montagne sono ricche di fiumi, alcuni sfociano nello Stretto di Bering, altri nel Golfo dell’Alaska e lungo quei corsi d’acqua corrono anche storie, leggende e miti, persino canzoni, della tradizione orale. Tutti questi racconti parlano dei ghiacciai come di parenti, familiari (kin) e tutte sono storie di migrazioni, che oggi definiremmo di “rifugiati climatici”. Una di queste narra come un intero clan fosse stato costretto a spostarsi verso sud e verso la costa da un ghiacciaio in movimento e di come un membro del clan fosse caduto in un crepaccio e poi fosse stato recuperato sano e salvo.
Il ghiacciaio visto da monte poteva apparire come un coniglio, visto dal mare come un gabbiano appollaiato, si trattava però sempre, in ogni caso, di punto cardinale per orientarsi, talvolta per la discesa verso l’oceano, talvolta per la risalita verso gli altopiani.
La lettura del saggio di Cruikshank, di cui propongo qui un assaggio, si presenta come un affascinante viaggio nelle relazioni tra umani e non-umani, là dove le condizioni atmosferiche e geomorfologiche sono estreme, dove i colonizzatori hanno portato distruzione, e dove poche storie orali sopravvivono a testimoniare l’agentività della natura, la migrazione come fenomeno natural-culturale, il rispetto e la fratellanza che le popolazioni native sempre hanno nutrito verso l’ambiente.
By no means this article is an "appropriation" of Indigenous cultural practices. On the contrary, it is a way to pay homage to Indigenous knowledge and to share the scientific achievements of the essay by Cruikshank.
BIBLIOGRAFIA
Julie Cruikshank, Do Glaciers Listen? Local Knowledge, Colonial Encounters, & Social Imagination, Vancouver, UBC Press, 2005.
Robert Bringhurst, A Story as Sharp as a Knife, Douglas and McIntyre, Second ed, [1999] 2011.