Storie di ricerca

Il Belpaese e l’Italia dei margini: riabitare gli spazi per praticare cittadinanza

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Rivoluzioni

L’Italia è un Paese bellissimo caratterizzato da molti luoghi brutti, di cui non parliamo mai. Si tratta di un’Italia trascurata, ai margini della narrazione dominante, esclusa dalle politiche territoriali, che subisce disuguaglianze sociali ed economiche. Nel mio lavoro seguo l’idea-forza che il benessere di una comunità passi dalla cura dell’infrastruttura fondamentale per la vita quotidiana delle persone: spazi che danno corpo e materialità alla sfera pubblica, dove praticare i propri diritti di cittadinanza e alimentare la capacità collettiva di fare futuro insieme.

Migliaia di piccoli Comuni, poche grandi città, molte città medie, conurbazioni, coste, colline e montagne, aree interne, aree vaste dove città e campagna si tengono senza soluzione di continuità, sistemi territoriali bio-regionali. Ma anche città medie come poli funzionali di un hinterland esteso, frange metropolitane del periurbano, continuum urbano-rurale tipico dell’Italia di mezzo.
La varietà territoriale è il tratto unificante di un Paese unito dalla diversità. Diversità che coincide con bisogni e interessi delle persone-nei-luoghi, non solo con la varietà territoriale in senso geografico-morfologico. La lente del policentrismo territoriale italiano, guardare quindi a questa varietà dei luoghi, aiuta a porre nella giusta prospettiva i tratti profondi del Paese e consente di abbandonarne altre, più opache se non distorcenti, prima fra tutte quella di Bellitalia.

L’Italia è un Paese bellissimo caratterizzato da molti luoghi brutti, di cui non parliamo mai. Posti in cui i turisti non hanno nessun motivo per andare, o dove si fermano solo per sbaglio o per ragioni logistiche, ma che nonostante questo continuano a inseguire la chimera della turistizzazione. Luoghi che, nonostante tutto, continuano a credere di essere belli, di poter interessare a qualcuno perché – come quasi dappertutto in Italia – possiedono una bella chiesa, una statua commemorativa, un qualche bene storico-architettonico; oppure hanno la vista su una collina, sono vicine a un laghetto o a qualche “montagna di mezzo”. Come se il senso dei luoghi prendesse forma soprattutto negli sguardi dei turisti che li visitano, non in quelli delle persone che li abitano. Si tratta di quella che con Joselle Dagnes abbiamo definito Bruttitalia: l’insieme dei luoghi dove nessun turista si sognerebbe mai di mettere piede. 

Un’Italia trascurata, ai margini della narrazione dominante, esclusa dalle politiche territoriali, che subisce disuguaglianze sociali, economiche e di riconoscimento e che quando si mette il vestito della domenica appare bizzarra, grottesca, inquietante.

Eppure sono luoghi della memoria, delle radici e di ricerca di futuro: luoghi dove si può desiderare di restare e di contribuire alla vita della comunità locale.
La rilevanza del policentrismo territoriale è evidente anche per il sistema universitario: esiste un nesso cruciale fra dove sono le università e di cosa si occupano le università, delle cose che le università possono fare per e con i territori.


LEGGI ANCHE

Ripensare la democrazia con l'organizzazione di comunità. Un caso studio da Città del capo


Nel mio lavoro di ricerca e di terza missione (si veda il sito dell’associazione “Riabitare l’Italia”, che ho contribuito a fondare e del cui direttivo faccio parte) ho seguito l’idea-forza che il benessere di una comunità passi prima e soprattutto dalla cura dell’infrastruttura fondamentale per la vita quotidiana delle persone: dal verde pubblico, ai parchi giochi, alla costruzione di un campo da basket dove gli adolescenti possono giocare, alle attività commerciali di prossimità, ai buoni lavori, agli spazi pubblici, ai servizi sanitari, educativi e per la mobilità individuale e collettiva. 

L’impatto di un’impostazione di questo tipo è chiaro:

il benessere quotidiano di una comunità è generato dalla cura di spazi, edifici e infrastrutture sociali di prossimità come case del quartiere, fondazioni di comunità, biblioteche multifunzionali, emeroteche, servizi pubblici capillari e decentrati, esercizi commerciali accessibili. Servizi vicini alle persone e adatti alle caratteristiche dei contesti.

Spazi, luoghi, filiere pubbliche, servizi privati ed edifici per le persone che danno corpo e materialità alla sfera pubblica, alla sua dimensione spaziale e all’infrastruttura capillare dei diritti di cittadinanza.
Quante volte negli ultimi sei mesi abbiamo avuto l’opportunità di sperimentarci insieme ad altri in ruoli di cittadinanza? Quante volte abbiamo avuto la possibilità di praticare o immaginare con altri, e magari con altri marginali che oggi non hanno voce, soluzioni condivise per il futuro della collettività?
È l’organizzazione spaziale di una sfera pubblica quotidiana, che sia costruita con la voce dei marginali e attraverso pratiche e azioni in comune, ad abilitare le condizioni per formulare la domanda di un futuro più giusto (ne scrivo nel mio ultimo libro: Le piazze vuote, Laterza, 2023).

Da questa prospettiva, è l'idea stessa di cittadinanza a dover essere ri-declinata non soltanto nella sua dimensione di status - ovvero come insieme di diritti soggettivi di cui sono titolari gli individui - ma anche in quanto azione e partecipazione che nutre la capacità di aspirare insieme a un futuro più giusto.