Storie di ricerca

Per una politica transnazionale smilitarizzata e ambientalista: il caso MUOS in Sicilia

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Rivoluzioni

Il mondo sta finendo e l’Italia pensa al terrorismo. Il mondo sta finendo e l’Italia si preoccupa di dare il via libera per l’installazione di un impianto militare statunitense in una riserva naturale: solo io sento qualcosa che stride? Aiutandomi con le riflessioni che propongo in un saggio pubblicato per l’Istituto Affari Internazionali, la mia attenzione qui è rivolta all’impatto delle politiche umane sugli ecosistemi. Il caso del MUOS in Sicilia rivela come la tutela ambientale e pubblica sia messa a rischio, ancora una volta, in nome degli interessi militari degli Stati Uniti

Dipartimento / Struttura
Culture, Politica e Società

Dal 2016 nel cuore di una riserva naturale a Niscemi, in Sicilia, in una posizione strategica nel Mediterraneo, è in completa funzione una stazione di comunicazione geo-satellitare ad altissima frequenza (UHF) della US Navy: dotata di tre antenne paraboliche dal diametro di 18,4 metri ciascuna, garantisce informazioni immediate a tutte le forze militari statunitensi in movimento sul pianeta che contribuirebbero a proteggere l’Occidente di fronte alle minacce del Medio Oriente. La stazione fa parte del MUOS (Mobile User Objective System) che si compone di cinque satelliti geostazionari e altre tre stazioni di terra, che si trovano in Virgina, nelle Hawaii e in Australia.

Sin dalle fasi iniziali, di fronte all’installazione dell’impianto nel sito della Sughereta a Niscemi, si materializzano diverse forme di protesta da parte della popolazione locale, ma anche da parte dell’amministrazione comunale e regionale, seppure in maniera più ambigua. Originatesi dalle preoccupazioni per i potenziali danni all’ecosistema protetto, le contestazioni poi si sono estese su altre tematiche: rifiuto della guerra, rappresentanza politica dei cittadini, diritto alla salute pubblica. Si è aperta così una stagione decennale di scontri e dibattiti tra eterogenei attori sociali, che ha contribuito a dare forma a quella che ancora oggi è una pagina della storia italiana contraddistinta da dubbi e ambiguità. 

È tramite l’esperienza della militanza politica che mi sono imbattuta con la vicenda controversa del MUOS, lasciando che si intrecciasse con il mio percorso accademico. Così, gli strumenti teorici dell’antropologia articolano la mia vocazione attivista e mi permettono di osservare il caso niscemese come l’espressione di una relazione tra Italia e Stati Uniti pervasa di criticità, che deve essere ripensata e adeguata ai tempi urgenti dell’Antropocene1: politica e ambiente - come ricerca e attivismo - non possono più essere separati. 

La cornice politica che si configura attorno alla stazione terrestre MUOS a Niscemi è confusa e ambigua fin dalle procedure autorizzative dell’amministrazione regionale passando per lo status giuridico dei trattati che ne permettono la costruzione, sino al contenuto stesso degli accordi. Le vicende processuali dietro alla costruzione del MUOS rivelano insomma scelte istituzionali apparentemente contraddittorie: in nome della ‘sicurezza collettiva’ del Mediterraneo vengono autorizzati segretamente i lavori per l’installazione di un impianto militare nel cuore di una riserva naturale.

Nel 1954 viene sottoscritto segretamente il Bilateral Infrastructure Agreement (BIA) - riconfermato nel 1995 e nel 2006, assicurando ai comandanti statunitensi il pieno coordinamento militare delle operazioni all’interno del circoscritto territorio italiano, riconosciuto “ad uso esclusivo” della US Navy. Inoltre, sia il BIA che lo Shell Agreement del 1995 sono stati firmati dal governo senza interpellare il Parlamento italiano. Si tratta di una procedura molto diffusa nella stesura di accordi internazionali di natura ‘tecnica’, senza essere tuttavia esplicitamente prevista dalla Costituzione italiana. È tuttavia lecito domandarsi fino a che punto un trattato che specifica le indicazioni per la costruzione di un enorme impianto in una zona protetta, e vicino a un centro abitato, possa rientrare nella categoria di accordo ‘tecnico’, dal momento che la sua sottoscrizione solleva questioni socio-ambientali ed effetti significativi sulla politica internazionale. 

Gli aspetti socio-ambientali che emergono durante la costruzione del MUOS non possono essere trascurati: l’impianto sorge in un’area boschiva che ospita un ecosistema ricco e diversificato, istituita come area protetta dal 1997. Nonostante le preoccupazioni - ciò che chiamo ‘dubbi ragionevoli’ rifacendomi agli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik Conway - espresse dalla popolazione locale e dagli esperti incaricati dalle istituzioni regionali, l’installazione dell’impianto militare viene avviata. Le attività massicce di cementificazione, drenaggio e livellamento del terreno causano profonde alterazioni ambientali e mettono a rischio le condizioni ideali per la sopravvivenza di alcune specie di uccelli o di api. Oltre ai danni causati dai lavori di costruzione, sono denunciati i possibili rischi per la salute pubblica legati all’esposizione delle radiazioni emesse dal MUOS che pare trascurare del tutto il principio di precauzione enunciato al punto 15 della Dichiarazione di Rio del 1992 che specifica: “[...] l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”.

Il caso del MUOS, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni, evidenzia la difficoltà delle istituzioni italiane nella gestione dei rapporti con Washington. Rinnovando il patto militare con gli Stati Uniti, l’Italia disegna una gerarchia di interessi e trascura la tutela ambientale e la salvaguardia della salute pubblica - tematiche urgenti nel "tempo delle catastrofi"2. Dire sì al MUOS entro i confini di una riserva naturale è pertanto una scelta istituzionale non più sostenibile per affrontare "la fine del mondo"3: da dove può ripartire allora la politica?

Racconto di ricerca supervisionato dal professor Andrea Filippo Ravenda. Il contenuto rispecchia il punto di vista dell’autrice.

NOTE
 

1 Esiste una letteratura sconfinata prodotta dalle scienze sociali sull’Antropocene, come i lavori di Danowski e Viveiros de Castro (2017), Latour (2000, 2020), Lovelock (2006) o di Moore (2015, 2016).

2 A regalarmi questa espressione è il titolo eloquente di un testo di Isabelle Stengers, in cui la filosofa della scienza va in cerca di nuove traiettorie per vivere nei tempi della catastrofe climatica, che ormai “è qui per restare”. Cfr. Stengers, Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire, Torino, Rosenberg & Sellier, 2021.

La fine del mondo è un’opera incompiuta dell’antropologo italiano Ernesto De Martino nella quale egli offre diverse risposte alla domanda: “come reagire di fronte alla possibilità di perdersi?” Benché del 1977, trovo l’interrogativo tremendamente attuale: come rispondiamo alla crisi ecologica che mette a rischio la vita sul pianeta, e quindi la condizione stessa di possibilità di ogni mondo culturale? Cfr. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino, Einaudi, 1977