Le profondità del male e il ritorno coloniale della Guerra
Le guerre non sono tutte uguali. Rendere conto dello spessore e delle articolazioni della violenza che manifesta nello specifico il conflitto in Ucraina ci può aiutare a comprenderne il significato e i fini. Si tratta di un percorso di ricerca - nel quale ho coinvolto studenti e studentesse - che permette da un lato di evitare semplificazioni irrealistiche nel percorso del raggiungimento della pace e dall’altro di contribuire, in futuro, a rendere giustizia piena alle vittime.
L’aggressione della Federazione russa all’Ucraina, con le sue caratteristiche, rappresenta una sfida etica e interpretativa per chi studia il fenomeno della guerra e le sue implicazioni. La mia competenza di storico dei crimini di guerra deve misurarsi con l’orrore ma anche con l’esigenza di storicizzare quanto avviene sotto i nostri occhi.
Questo implica sistematizzare la lettura degli eventi e riconfigurarli in processi interpretabili non sotto il semplice segno della violenza “di ogni guerra”. Un approccio che consente di qualificare lo scenario reale nella pubblica opinione in Europa, contrastando ipotesi semplificatorie di pacificazione “indolore”. Ma soprattutto questo tipo di analisi pone le basi scientifiche e culturali per sostenere un adeguato reticolo istruttorio per i percorsi futuri dei tribunali internazionali che possa un giorno rendere giustizia alle vittime.
Ho condiviso questo percorso, condotto all’interno di un progetto europeo sull’”Hybrid Warfare” che vede la partecipazione di un gruppo di lavoro della Scuola di Scienze strategiche, con le studentesse e gli studenti del mio corso di Storia dei crimini di guerra. Con loro ho condiviso da un lato il tentativo di delineare e valutare le fasi di un’escalation esemplare e la determinazione distruttiva che la guida, e dall’altro un percorso comparativo con scenari della seconda guerra mondiale e delle guerre balcaniche degli anni ’90. La definizione della natura dei crimini, la verifica delle fonti per la loro individuazione e classificazione, il confronto con i percorsi istruttori della giustizia internazionale del passato in vista di quelli del presente, sono gli approdi di una strada ancora in corso. Qui di seguito riporto quanto è emerso finora.
Fallito il colpo di mano iniziale, fondato su un assunto ideologico arcaico e infondato (e su un deficit di quella che si definisce intelligence strategica), secondo cui l’Ucraina e gli ucraini non esisterebbero, l’aggressione russa ha riportato sulla scena le logiche distruttive estreme delle guerre di conquista e la ridefinizione della geografia umana propria dei conflitti coloniali. Le fasi della violenza sulla popolazione e sui territori di cui le unità russe hanno inizialmente assunto il controllo sono eloquenti, in particolare se posti in relazione con la rapidissima crisi dell’Operazione militare speciale, supponente e approssimativa, di fronte alla resilienza corale del sistema civile-militare ucraino di difesa.
La violenza distruttiva sugli insediamenti civili, inizialmente “esemplare” e intimidatoria, nell’arco di pochissimi giorni è diventata sistematica e l’indistinzione tra civili e militari, tipica dell’approccio operativo russo (dalla Cecenia alla Siria), ha assunto progressivamente una veste ideologica e punitiva secondo quelli che abbiamo individuato come quattro stadi che scandiscono le sei settimane successive al 24 febbraio: dall’intimidazione, alla coercizione, all’epurazione sino alla punizione distruttiva.
L’itinerario si evidenzia a livello macro sulle città ma scandisce i suoi passaggi chiave verso la barbarizzazione coloniale della guerra a livello micro, nell’approccio diretto alla popolazione civile.
Coercizione, terrore e deportazione, come svuotamento territoriale intenzionale, si combinano rapidamente nella gestione dei corridoi umanitari per l’evacuazione dei civili dalle aree di combattimento. La sistematica violazione russa dei cessate il fuoco replica la lezione delle milizie serbe di Sarajevo, colpendo con terroristica discrezionalità i civili appena esposti sulle vie di fuga in un feroce, umiliante e vessatorio gioco del gatto col topo che svilisce l’umanità delle vittime trasformate in bersagli. Opera però anche come strumento di gestione della deportazione, svuotando territori da razziare o di cui prendere possesso ma soprattutto incanalando coercitivamente la fuga verso il territorio russo.
Nelle prime sei settimane l’aggressione ha creato 15 milioni di profughi, fra interni ed esterni nel cuore dell’Europa. Una dimensione inaudita che computa al suo interno anche circa 1,2 milioni di ucraini convogliati verso il territorio russo.
L’approccio ai territori ha palesato una rapida declinazione punitiva della violenza che è passata da una fase programmaticamente epurativa a una propriamente distruttiva e predatoria, sia a livello di sistema, sia al livello di generalizzati comportamenti diffusi della truppa.
L’esordio delle occupazioni è stato segnato dall’ambizione di decapitare la capacità di resistenza del tessuto civile ucraino. È stata la “guerra dei sindaci”, bersaglio di arresti, torture e uccisioni insieme agli altri soggetti potenzialmente capaci di fare da punto di riferimento per la popolazione e oggetto di particolari pratiche di “mattanza”. Un processo assimilabile a quello intrapreso dalla Germania nazista nell’area più occidentale e poi germanizzata della Polonia del tardo 1939, quando le locali minoranze (volkedeutche) tedesche fecero da guida per la eliminazione di decine di migliaia di notabili polacchi in vista della totale annessione dei territori.
Un modello che prefigura uno scenario di dominio in cui la piena disponibilità dei territori e delle popolazioni si presta a successive operazioni di rimodulazione identitaria degli insediamenti attraverso politiche di trasferimento ad hoc. A valle di ciò, l’emergente evidenza dei trasferimenti di minori nella Federazione, tra assorbimento e rieducazione nel crogiuolo panrusso.
Ai processi epurativi seguono fenomeni generalizzati di punizione sistematica della popolazione, colpita discrezionalmente in particolare nelle fasi di ritirata. La predazione di territori e risorse ha combinato una istanza dall’alto: sottrarre al nemico ciò che potrebbe essergli utile o esserci utile, distruggendo il resto, a una piena impunità predatoria per i soldati legittimati alle pratiche più estreme della violenza. Un’autentica politica della “terra bruciata”. Il rapido dispiegamento di unità tipicamente “coloniali” (composizione non nazionale o mercenaria, dichiaratamente propensi ad agire fuori dalle regole) come i reparti Ceceni di Kadirov o le unità mercenarie della Wagner, ha enfatizzato la dimensione terroristica dello scenario.
Testimonianze e reportage giornalistici con rilievi, filmati e interviste, insieme ai primi report pubblici degli organi ucraini e internazionali di indagine si combinano con la disponibilità di fonti di digital intelligence e di signal intelligence nel catturare la pienezza dell’orrore e la definizione delle responsabilità. Abbiamo percorso questo itinerario sul piano didattico e della ricerca comparando questi primi elementi con la documentazione prodotta durante la seconda guerra mondiale dai nuclei alleati di indagine impegnati nella costruzione dei primi fascicoli istruttori a proposito delle stragi naziste in Italia (Special Investigation Branch). Il ritorno punitivo dei reparti in ritirata nelle case rimaste ai civili; la discrezionale uccisione degli inermi insieme alla mirata punizione dei resistenti disegnano uno scenario molto ampio di crimini nutriti da un sentimento coloniale di vendetta.
Infine, un aspetto particolare della violenza esercitata sulla popolazione deve ancora essere messo adeguatamente a fuoco. La vastissima segnalazione di stupri ha dato vita alla raccolta e verifica di una particolare serie di materiali istruttori alimentando l’apertura di decine di migliaia di fascicoli. Lo scenario appare estremo e il modello distruttivo della “terra bruciata” è quasi superato dall’estensione quantitativa del fenomeno e dalla dilatazione anagrafica e di genere (i bambini e le bambine) delle vittime. Le caratteristiche sono tali da varcare, al momento, gli schemi interpretativi che storia e diritto hanno maturato alla luce delle esperienze degli anni ’90 e impongono un ponderato sforzo ulteriore di analisi.