Mangiare (da) Dio? Cibo e salute spirituale tra Medioevo e contemporaneità
Sante e mistiche del passato vissero spesso un rapporto complicato con il cibo: di recente alcuni studiosi hanno provato a interpretare questo genere di vissuto in chiave psicopatologica, come forma di anoressia. Oggi, anche se il digiuno è indicato in alcuni periodi dell’anno liturgico, la sana alimentazione è una regola del buon vivere cristiano. Cosa ne dicono i testi sacri, la letteratura, il cinema e gli studi recenti?
“Dio fece il cibo, il diavolo i cuochi” sussurrava (tra i denti) Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse di James Joyce. E anche se la natura demoniaca degli chef resta tutta da dimostrare, l’origine “divina” delle materie alimentari non si discute. Ma di cosa ha bisogno il buon cristiano per vivere? A partire da questa domanda abbiamo passato in rassegna alcuni passi delle sacre scritture, nonché opere letterarie, teatrali e cinematografiche per approfondire il rapporto tra spiritualità, cibo e salute. Fisica ma anche mentale.
Il digiuno nella tradizione e oggi
L’Antico Testamento è costellato di prescrizioni alimentari e di racconti collegati. Sappiamo, per esempio, che Isacco coltivava grano (Gn 26,12), il che ci fa supporre che i suoi derivati prevalessero nella sua dieta, e che a Esaù la zuppa di lenticchie piaceva al punto da essere disposto a cedere la sua primogenitura in cambio di una porzione (Gn 25). Allo stesso modo nei testi sacri sono presenti i digiuni rituali: Mosè, per esempio, “rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare pane e senza bere acqua” (Es 34, 28) e lo stesso Gesù trascorse nel deserto il suo digiuno sacro.
Nel primo Cristianesimo privarsi del cibo era un modo per pregare. Nelle agiografie medievali la capacità di digiunare era segno della grazia divina e aiutava il santo ad accedere a poteri miracolosi (visioni mistiche, stigmate, capacità di guarire e moltiplicare i cibi). Tra il ‘500 e il ‘600, però, la situazione cambiò e s’iniziò a sospettare che il digiuno potesse essere addirittura una tentazione diabolica. D’altra parte San Paolo (Efesini 5, 29-30) l’aveva detto un bel po’ di tempo prima di non esagerare nella mortificazione del corpo e in tempi recenti è proprio questa l’idea più comune. Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, promuove per esempio la cura del corpo come necessaria al buon vivere nella (e della) comunità.
Sante digiunatrici nella letteratura e nel cinema
Nelle sue opere, Dacia Maraini racconta la vita di Santa Chiara (la quale, quando non digiunava, consumava un’oncia di pane al giorno) e di Santa Caterina da Siena cercando le motivazioni del loro digiuno e immaginandole interlocutrici di chi, oggi, è alla ricerca di un “corpo felice”. Secondo la scrittrice tale ricerca non può che esprimere la fame di qualcosa che va oltre una questione medica. Il corpo di Caterina, così, non si nutriva “di pane e latte ma di visioni e di musiche celesti” (Maraini, Catarina da Siena). Al posto del cibo comune “la innamorata di Cristo […] arrivava a bere l’acqua con cui è stato pulito il corpo di un malato di lebbra” essendo sicura che “sarebbero giunti alle sue narici odori di violette e di frutta fresca”. Il sacrificio del corpo nel Medioevo trasformava “velocemente il fetore in profumo. Questa la gratia del Signore” (Maraini, Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza). Esso non va confuso con le definizioni che la psichiatria moderna ha dato dell’inedia: su questo concorda anche la collega dell’Università di Padova Ines Testoni (Il sacrificio del corpo. Dialogo tra Caterina da Siena e Simone Weil).
Il tema del legame tra digiuno e spiritualità approda anche al cinema: L’Apparizione (Xavier Giannoli, 2018) racconta della giovane Anna che confessa al proprio parroco di aver visto la Vergine Maria e intraprende la strada della rinuncia estrema, apparentemente proprio come le mistiche medievali. Intorno all’adolescente, novizia di un convento, si crea una piccola comunità che protegge ciò che considera un miracolo. L’immolazione di sé, in questo caso, è vista alla stregua di un’ “etica assolutista”, che ricerca il “Perfettissimo” (Testoni), ma anche sotto la lente moderna dell’anoressia.
Grazia divina o patologia psichiatrica?
Dagli anni Ottanta clamorosi studi (per esempio La santa anoressia di Rudolph M. Bell,) presentarono come anoressia il rapporto di alcune sante con il cibo. Nelle ricerche successive si cercò invece di dimostrare che quel tipo di digiuno medievale poteva essere interpretato sotto diversi aspetti (vedi Sacro convivio, sacro digiuno di Caroline W. Bynum), ma difficilmente rientrava in un quadro odierno di psicopatologia. Se così fosse, tutte le manifestazioni del misticismo e della santità rischierebbero di essere ridotte alle categorie psichiatriche. Per il ruolo che i santi hanno avuto e hanno nella nostra cultura (ma anche per le procedure di canonizzazione messe a punto dalla Chiesa negli ultimi tre secoli) non è quindi possibile ricondurre le “sante digiunatrici” al manuale medico.
La saggezza popolare, d’altra parte, insegna: chi mal mangia, assai digiuna. E questo sembra valere tanto per il corpo quanto per lo spirito.