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“Mangiare è un atto agricolo”: ripensare il ruolo sociale di chi coltiva il nostro cibo

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Cibo del futuro

La nostra relazione con il cibo è più complessa di quanto sembri. Spesso lo percepiamo come "prodotto", dimenticando chi coltiva le materie che diventeranno cibo. Il senso comune rappresenta l'agricoltura come oscillante tra due visioni opposte: un'attività arretrata e faticosa o un'idealizzazione romantica. Tuttavia, la realtà è molto più sfaccettata e include sia piccoli agricoltori tradizionali che grandi aziende ad alta tecnologia. Se la filosofia analizza i modelli di produzione, dal puro profitto all'approccio olistico, un ragionamento sul futuro del cibo richiede una riflessione che sia incentrata non solo sulle scelte alimentari individuali, ma anche sul ruolo sociale e politico dell’agricoltura e dell’allevamento.

Dipartimento / Struttura
Filosofia e Scienze dell'educazione

Il cibo si produce? Oppure lo si coltiva o lo si alleva?
La scelta del verbo giusto non è una mera questione di stile. Denota invece un atteggiamento filosofico sulla nostra relazione tra consumo di cibo e attività agricola.

Per molte persone il cibo è certamente prodotto, e non ci sono molti dubbi a riguardo se andiamo al supermercato e compriamo qualcosa. Alcune volte si tratta di cibo pronto per essere riscaldato o subito mangiato, altre volte sono ingredienti che poi cuciniamo. Ma i finocchi e le carote ci appaiono lì, sullo scaffale del supermercato, puliti, impilati, tutti uguali, già privati di quelli che consideriamo scarti. Per non parlare della carne, di cui molte volte ignoriamo tutto il percorso precedente, e che spesso compriamo già in porzioni scelte. Raramente prendiamo un pollo intero, molto più spesso ci limitiamo al singolo pezzo: per quello che ne potremmo sapere, i petti di pollo crescono dentro il supermercato.

Ci dimentichiamo, in altre parole, che c’è qualcuno che quel cibo lo ha prodotto o meglio, ha allevato o coltivato ciò che per noi è cibo. Se possiamo mangiare, insomma, è grazie a persone che coltivano la terra e allevano animali.

Per chi fa parte di ristrette cerchie di consumatori e compra direttamente dai produttori, la filiera e gli elementi agricoli sono più evidenti, ma si tratta comunque di una nicchia.
Molta attenzione viene data ai problemi che riguardano la considerazione morale da dare agli animali non umani e se sia moralmente lecito un loro utilizzo a fini strumentali e alimentari. Al di là di questo problema, che qui non viene affrontato, ci sono questioni, che spesso passano sottotraccia, sul ruolo sociale dell’agricoltore e sull’organizzazione della vita agricola che devono essere analizzate con altrettanta attenzione.

Nelle società occidentali generalmente l’agricoltura (ma lo stesso discorso vale anche per l’allevamento) è considerata un’attività di nicchia e arretrata, oppure è investita di un'aura romantica. Da un lato, infatti, nel senso comune il lavoro agricolo è un lavoro faticoso, poco prestigioso, non qualificato, un lavoro di scarto e nel quale non servono grandi capacità intellettive (atteggiamento esemplificato dal detto: "braccia strappate all'agricoltura").
Dall’altro si assiste a una romanticizzazione: per esempio il giovane che lascia tutto per riscoprire il contatto con la natura, una vita più a dimensione umana o quello che resiste nel suo territorio lottando contro tutte le difficoltà. È un atteggiamento onnipresente non solo sui media, ma anche nella legislazione. Si parla infatti di “agricoltura eroica” e di “agricoltore custode”. Il primo è colui o colei che svolge la propria attività in territori particolarmente difficili caratterizzati da un radicale spopolamento e abbandono. Il secondo invece è colui o colei che coltiva e alleva varietà particolari e tradizionali a rischio abbandono.

Sia nel caso della visione dequalificante che in quella idealizzata dell’agricoltore, l’immagine che ci viene restituita è quella di un piccolo agricoltore, poco tecnologico e che fatica molto.

Se guardiamo però ai dati ISTAT, la realtà è molto diversa. È vero che la maggior parte degli agricoltori in Italia sono piccoli agricoltori (la dimensione media delle aziende italiane è di 8,4 ettari), e sono spesso titolari di aziende a basse redditività e intensità tecnologica (basti pensare che il 71,7% delle aziende ha una superficie inferiore a 5 ettari: per lo più si tratta di imprese individuali e molte volte l’attività agricola è secondaria, cioè affianca un’altra attività produttiva). A queste fanno da contraltare però le grandi aziende, con centinaia di ettari di terreno, solide infrastrutture e alta tecnologia, non ultima l’intelligenza artificiale, in grado di prevedere il meteo per ottimizzare l’irrigazione o controllare lo stato di salute di ogni singolo animale. 


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La (poca) filosofia che si è occupata di agricoltura ha analizzato i framework teorici entro i quali avviene la produzione. Paul B. Thompson, pioniere e padre della filosofia dell’agricoltura, ha individuato quattro paradigmi distinti.
Il primo è il paradigma produzionista: l’agricoltura è un’attività economica da cui trarre profitto. Tutto è lecito purché si guadagni. Il secondo è quello dell’agricoltore come “buon amministratore”. Per questo modello dalle radici bibliche, gli esseri umani “dispongono” della natura, devono tutelarla, proteggerla, coltivarla come un bel giardino, ma sono comunque separati da essa, radicalmente differenti e superiori. Il terzo modello prende le mosse dal primo, ma cerca di mitigarne i difetti. Si tratta della “economia ambientale”, in cui si cerca di computare nel calcolo del guadagno anche i costi esternalizzati, cioè scaricati su terzi o la natura stessa. Infine il quarto modello è quello olistico, ed è in realtà un insieme di modelli, che vanno da quelli parascientifici come l’agricoltura biodinamica, a quelli più solidi come l’agroecologia o l’agricoltura biologica. Ma tutti cercano di tenere insieme la dimensione ambientale, umana e sociale.

Non si tratta però solo di discutere di impostazioni economiche e di produzione, ma anche di inquadrare il ruolo dell’agricoltore nelle nostre società e di comprendere la rilevanza.

Un grande narratore statunitense, Wendell Berry, in un suo saggio intitolato Il piacere di mangiare, scriveva che “mangiare è un atto agricolo”. Voleva sottolineare che ogni nostra scelta alimentare era intrinsecamente legata alle pratiche che avevano portato quel cibo sulle nostre tavole.

Scegliere cosa mangiare significa quindi anche supportare un certo tipo di modello agricolo piuttosto che un altro. Tuttavia il peso di queste scelte non deve ricadere tutto sui singoli individui: una parte importante la giocano i governi centrali e sovranazionali, che possono indirizzare l’economia e i metodi di produzione.

Guardare all’agricoltura e all’allevamento solo come attività di produzione di cibo le ha esposte anche all’analisi del loro impatto ambientale. Sempre di più sappiamo che nelle forme più industrializzate il loro impatto sulle emissioni e sul suolo è molto alto. Tuttavia quella che è una critica necessaria e legittima è stata percepita come una critica all’intera categoria, spesso anche a causa della cattiva comunicazione delle iniziative legislative europee come il “green deal”. Lo abbiamo visto recentemente nelle proteste degli agricoltori, dove svettavano cartelli in cui si rivendicava di non essere inquinatori, ma salvatori del pianeta. 

Se si vuole discutere del ruolo che hanno l’agricoltura e l’allevamento nella nostra società non ci si può limitare a guardarle come attività “produttive” e come “inquinatori”. Esse svolgono un ruolo fondamentale nella preservazione dei nostri territori, nel dare forma a paesaggi che tutti noi apprezziamo (si pensi ad esempio ai terrazzamenti liguri, alla Val d’Orcia, o ai grandi oliveti pugliesi).
Sono lavori che si svolgono in contesti rurali, aree scarsamente abitate o interne, territori in cui spesso mancano le infrastrutture essenziali, e in cui i servizi pubblici scarseggiano.

La percezione di essere abbandonati dallo Stato e colpevolizzati dall’opinione pubblica, contribuisce al continuo disaffezionamento al dibattito pubblico da parte degli agricoltori ma più in generale degli abitanti delle aree interne, che per molti versi ne condividono la condizione, o alla loro radicalizzazione negli estremismi populisti.

Spesso si parla di agricoltura, dei suoi sviluppi e del suo futuro, solo dal punto di vista dei consumatori e degli abitanti delle aree urbane: che tipo di cose ci piacerebbe mangiare o come sarebbe meglio che fossero prodotte. Non bisogna però dimenticarsi di mettersi anche nei panni di coloro che quel cibo lo coltivano e lo allevano. Le politiche che riguardano l’agricoltura e l’allevamento riguardano prima di tutto le persone che lavorano in questi comparti.

Il coinvolgimento diretto di questi attori nelle politiche europee e nazionali, così come nelle frontiere della ricerca può essere una buona strategia per mitigare il conflitto sempre più acuto tra aree urbane e rurali, tra chi il cibo lo produce e chi lo consuma.