Il fine vita tra morale, tecnologia e diritto: la società non può attendere
Eutanasia, suicidio assistito, accanimento terapeutico: la riflessione sulla mortalità dell’umano si è arricchita di concetti un tempo impensabili. Sono espressioni che richiedono un uso cauto, perché la confusione è dietro l’angolo, così come la possibilità di ideologizzare circostanze e trattamenti.
Il racconto inserisce nella Proposta di Lettura Magnifiche presenze. Visioni dantesche nella ricerca di oggi. La scelta dell'estratto della Divina Commedia e il relativo commento sono a cura del professor Donato Pirovano e del Comitato studentesco Per correr miglior acque.
L’anime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblïando d’ire a farsi belle.
(Purgatorio II, 67-75)
In questo passo le anime, con stupore fanciullesco, si meravigliano di vedere Dante vivo: nel regno dei morti qualcuno non sta alle regole. Guardano, anzi fissano il volto che rivela la vita e quasi si dimenticano il loro compito: continuare a purgarsi. Qua le anime vivono una dimensione intermedia tra vita e morte: vivono la morte ma incontrano la vita e si stupiscono.
IL FINE VITA TRA MORALE, TECNOLOGIA E DIRITTO: LA SOCIETÀ NON PUO' ATTENDERE
Da dove sorge la difficoltà di interpretare fatti e norme attorno al fine vita? In massima parte dall’applicazione della tecnologia all’essere umano e quindi dalle sfide morali poste ai modelli giuridici. Gli schemi tradizionali del nostro ordinamento non hanno risposto alle esigenze contemporanee della società fino alla legge 219/2017 e alla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale. La prima ha infatti disciplinato la possibilità per il malato di rifiutare o sospendere ogni terapia, compresa quella salvavita. Il medico, in questo caso, può sostenere il paziente con una sedazione palliativa profonda continua. La seconda ha poi stabilito come non sia punibile, ad alcune condizioni, chi agevola l’esecuzione dell’intenzione suicida, purché si sia formata in modo autonomo e libero in un paziente affetto da una patologia irreversibile, tenuto in vita da terapie di sostegno vitale. Un quadro assolutamente innovativo.
Perché è fondamentale che il diritto si evolva quanto più possibile nella direzione del sentire sociale? Perché se il cittadino avverte le norme ostili ed estremamente distanti dalla propria vita il rischio è quello di una cesura tra la società e il diritto, con i cittadini privati di “uno strumento prezioso del vivere civile [e] con il diritto sostanzialmente esiliato dalla coscienza comune”, come l’ex Presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi ha sottolineato.
Ma anche perché se è vero che la morte ci definisce in quanto esseri finiti, mortali appunto, diviene indispensabile potersi definire in modo libero e autonomo nella morte stessa, che è dunque condizione di verità dell’essere umano. L’autodeterminazione dovrebbe quindi essere la chiave in grado di mettere in diretta comunicazione il cittadino e l’ordinamento, in ogni fase dell’esistenza, ma specialmente quando questa non sia più percepita dal soggetto come degna di essere vissuta.
Infine è curioso notare come il fine vita riesca a capovolgere l’argument from nature, molto diffuso in ambito bioetico. Alle innovazioni biomediche viene sovente opposta la critica per cui, per il solo fatto di interferire con la natura, sarebbero moralmente inaccettabili. Alla base vi è l’assunto per cui il bene coincida con la natura, mentre il male con l’artificio. Tuttavia, nel caso del fine vita, l’astenersi dall’interferire con il naturale decorso della malattia viene spesso inteso come moralmente inaccettabile. Ne deriva un dibattito pubblico dominato da una “cacofonia di differenti narrazioni competitive”, in cui la bioetica diviene un “terreno di scontro tra paradigmi contrapposti” (Hugo Engelhardt). Quel che è certo è che un ordinamento permissivo rispetto al suicidio assistito, ed eventualmente all’eutanasia, consente a ogni cittadino di determinarsi nella morte. Qualunque sia il suo set di valori morali. Al contrario, quando a prevalere sia un’ottica proibitiva, soltanto parte della società può dirsi realmente libera e riconoscersi nell’ordinamento giuridico.
Proprio da quest’ultima riflessione si è orientata parte della mia ricerca dopo il dottorato. Partendo dal minimo comune denominatore tra inizio vita (Procreazione medicalmente assistita) e fine vita: il peculiare scontro concettuale tra natura e artificio in relazione all’essere umano e la conseguente difficoltà di conciliare i valori di una società plurale. Denominatore che, per altro, lascia ampio margine di riflessione su molti altri ambiti relativi al rapporto tra scienza, società e diritto, come racconta qui la mia collega Giulia Perrone.