Eccelle su tutto in natura. Primo Levi e l'acqua tra distopia e classicità
Compone noi al 60% e il nostro pianeta al 70%: è l’acqua. Che nei Lager nazisti era negata ai prigionieri; l’acqua che, se perdesse le sue proprietà, metterebbe in ginocchio la specie umana; l’acqua che, ogni giorno e sul nostro pianeta, inquiniamo e sprechiamo. Ecco come Primo Levi, in dialogo con la tradizione classica, ci parla di questo elemento fondamentale per la vita terrestre.
L’opera di Primo Levi, l’ha scritto Mario Barenghi, è una «galassia»: ha tanti soli, pianeti e lune, brulica di vita. Come ho dimostrato su un numero monografico di «Status Quaestionis», una rotta che la attraversa in diagonale è proprio la presenza dell’acqua, foriera di vita: certo perché Levi era un chimico, ma anche perché era un deportato, e non da ultimo uno scrittore.
Partiamo dal Lager, dove nessun prigioniero può liberamente bere: «sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera, e c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten [“vietato bere”]» scrive in Se questo è un uomo. L’unica fonte di liquidi è «la grossa dose di acqua che di giorno siamo costretti ad assorbire sotto forma di zuppa, per soddisfare la fame: quella stessa acqua che alla sera ci gonfia le caviglie e le occhiaie, impartendo a tutte le fisionomie una deforme rassomiglianza, e la cui eliminazione impone ai reni un lavoro sfibrante». E poi la tortura di Tantalo, dannato punito al Tartaro: impantanato fino al collo, tentato dal cibo che non riesce a raggiungere, nel fango che non riesce a bere (fig.1). E, come lui, ogni notte nella baracca c’è chi geme, rantola, sogna cibo e acqua: «È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo». «Acqua niente per lui / Che solo d’acqua aveva bisogno, / Acqua per cancellare / Acqua feroce sogno / Acqua impossibile per rifarsi mondo»: sono i versi di una poesia di Levi, Fuga (1984, Ad ora incerta), che ben descrivono una tale, arida desolazione, e anticipano l’episodio dell’acqua non condivisa con Daniele, «che aveva le labbra spaccate e gli occhi lucidi», nei Sommersi e i salvati.
È invece tutto regolare, o quasi, in Ottima è l’acqua: nel laboratorio in cui lavora Boero, il protagonista del racconto, è tutto nella norma finché non si scopre che il coefficiente di viscosità dell’acqua si è misteriosamente impennato rendendola più densa. È un vizio di forma, come il titolo della raccolta: argomento del racconto, nato da "un’intuizione puntiforme" (così Levi chiamava i suoi racconti “nati” in laboratorio) ma con un evidente richiamo alla prima Olimpica di Pindaro nel titolo, è il distopico pericolo che le acque del cielo e della Terra polimerizzino. L’ispirazione, come spesso avviene nell’opera di Levi, proviene dal mondo scientifico. Era il 1970: il chimico Boris Vladimirovich Derjaguin pubblicava su «Scientific American» l'articolo Superdense Water dove illustra l’insolita proprietà dell'acqua per cui, se contenuta in capillari di quarzo, modifica la sua densità.
E se nella prima Olimpica di Pindaro «Eccelle l’acqua su tutto in natura», qui l’anomalia diventa una piaga: «I malati sono morti, ed ora siamo tutti malati: i nostri cuori, pompe miserevoli progettate per l'acqua di un altro tempo, si sfiancano dall'alba all'alba per intrudere il sangue viscoso entro la rete dei vasi; moriamo a trenta, a quarant'anni al massimo, di edema, di pura fatica, fatica di tutte le ore, senza pietà e senza soste, che pesa in noi dal giorno della nascita, e ci impedisce ogni movimento rapido o prolungato. Come i fiumi, anche noi siamo torpidi» (Ottima è l’acqua, 1971, Vizio di forma).
E c’è infine la Lettera a Orazio, che ne celebra il bimillenario della morte e si configura come un bilancio globale in cui storia romana e contemporanea vengono paragonate. Levi si chiede, come scrive altrove, se è «giunto il momento di fare i conti planetari, e di mettere un freno, se non ai consumi, almeno agli sprechi, ai bisogni artificialmente provocati, ed all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo» (Prefazione a L. Caglioti, I due volti della chimica, 1979, Pagine sparse). Altrimenti non ci sarà che morte, estinzione, distruzione, autodistruzione. Dovremmo forse, allora, ricordare il suo monito e salvaguardare l’acqua, «che pure non ha congeneri: […] è legata all'uomo, anzi alla vita, da una consuetudine di sempre, da un rapporto di necessità molteplice, per cui la sua unicità si nasconde sotto la veste dell'abitudine» (Cerio, 1975, Il sistema periodico). Fino ad allora, però,
Continuerà il mare a dibattersi
Captivo tra i continenti
Sempre più avaro della sua ricchezza.
Continueranno il loro corso
Sole stelle pianeti e comete.
Anche la Terra temerà le leggi
Immutabili del creato.
Noi no.
Noi propaggine ribelle
Di molto ingegno e poco senno,
Distruggeremo e corromperemo
Sempre più in fretta;
Presto presto, dilatiamo il deserto
Nelle selve dell’Amazzonia,
Nel cuore vivo delle nostre città,
Nei nostri stessi cuori.
(Almanacco, 1987, Altre poesie)