Ragione o sentimento? È sulla lingua che si incontrano… con risvolti anche in architettura
Sapevate che la luce d’ambiente in un ristorante potrebbe influire sulla percezione di gradevolezza del piatto appena servito? O che lo stesso whisky “cambia” sapore se bevuto in luoghi diversi? Che il nostro modo di comprendere la realtà si basa su un coinvolgimento totale, viscerale, del corpo che “sente”? Queste recenti scoperte neuroscientifiche, oltre a meglio spiegare la sinestesia, ci stanno portando a rivalutare le facoltà sensoriali su quelle cognitive e costruiscono ponti inediti tra discipline diverse, toccando l’estetica, le arti visive, l’architettura.
I neurofisiologi hanno identificato la corteccia gustativa primaria nella regione dell’insula, una porzione antica della corteccia cerebrale posta tra il lobo temporale e il lobo frontale; non hanno però escluso l’attivazione di una rete corticale che comprende altre regioni che, a loro volta, sarebbero correlate all’esperienza sensoriale della piacevolezza del gusto, che si attiva soprattutto in presenza di stimoli visivi di cibi altamente calorici.
Il neurofisiologo Gordon Shepherd, che ha posto le basi della neurogastronomia, ha formulato la tesi di un unico circuito del sapore, un sistema ritenuto tra i più ampi del comportamento umano, capace di correlare - attraverso il sapore - percezioni, memorie, emozioni e finanche linguaggio e meccanismi decisionali. Se a questo quadro si aggiungono gli effetti del rilascio di dopamina e oppioidi nel circuito edonico-gustativo si può immaginare fino a che punto anche la sola vista del cibo e l’evocazione della gradevolezza di una sostanza costituiscano un rinforzo a comportamenti fondamentali per la perpetuazione della specie.
Da un altro angolo visuale, in un certo senso in linea con il celeberrimo motto di Ludwig Feuerbach, queste evidenze sperimentali porterebbero a sancire la fine della dicotomia tra le facoltà cognitive e quelle sensoriali, tra la razionalità e il sentire emotivo, lungo un percorso inaugurato fin dagli anni Novanta dal neurologo Antonio Damasio nel saggio L’errore di Cartesio e confermato dagli studi sui neuroni specchio e sull’embodiment radicale, una condizione di coinvolgimento totale, viscerale del corpo nel momento esperienziale, in un’interazione concreta con il mondo. Di qui ha preso l’avvio la collaborazione tra le neuroscienze e l’estetica, con importanti contributi nelle arti visive e persino in architettura.
Da studiosa di filosofia della mente, stimolata da alcune esigenze didattiche, mi sono accostata alla neuroestetica a partire dai lavori di Semir Zeki e dall’opera di Eric Kandel, L’età dell’inconscio, scoprendo uno scenario che coniuga filosofia, storia dell’arte e neuroscienze. Il passaggio successivo mi ha condotto alla neuroarchitettura, una branca delle neuroscienze che si propone di studiare l’influsso dell’ambiente su percezioni, emozioni e comportamenti.
È in questo ambito che ho potuto scoprire il recupero del gusto, che insieme alla rivalutazione di tutte le modalità sensoriali, è oggi un argomento particolarmente caldo per i teorici dell’architettura. È ormai diffusa la convinzione che la triade “spazio, tempo e materia” penetri nella coscienza attraverso tutte le porte sensoriali e che il predominio della vista vada attenuato a favore della modalità aptica, cioè tattile. Queste idee segnano la fine dell’architettura “retinica”, a favore di una concezione multisensoriale. Se i sensi sono specializzazioni della pelle, cioè estensioni del tatto, le sensazioni sono “modi di toccare” e la lingua non fa eccezione. I suoi recettori nelle papille gustative interagiscono però con olfatto e vista, a tal punto che pare assodato che una luce sbagliata al ristorante potrebbe rendere meno gradevole la percezione di un piatto o che lo stesso whisky non sembra avere quel peculiare sapore, se bevuto in luoghi differenti. Oltre che dai ricordi, il gusto e l’odore delle cose sono dunque influenzati dai fattori ambientali.
Persino lo spazio architettonico avrebbe la propria origine ancestrale nella bocca. E in effetti non mancano le testimonianze di esperti che si sono serviti del gusto per fruire appieno delle opere architettoniche. In una lettera al padre del giugno 1852, John Ruskin confessava che si sarebbe mangiato Verona, pietra dopo pietra; altrettanto sensibile al “sapore” dei marmi veronesi fu il critico di formazione psicoanalitica Adrian Stokes, che ammetteva di essere attratto dal loro “invito orale”. Salvador Dalì giudicava “terrificante e commestibile” l’architettura Art Nouveau. L’architetto finnico Juhani Pallasmaa racconta l’impulso a toccare con la lingua lo stipite di marmo bianco della D.L. James House in California, rinviando alle opere sensuali (non ultime quelle del nostro Carlo Scarpa) capaci di suscitare esperienze gustative.
Ma è nel Libro d’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, atto d’accusa contro l’elettricità, che si raggiunge l’apice della narrazione sinestetica: nella ciotola di legno laccato colma di cibo caldo, il brodo richiama sfumature di colore, il vapore annunzia il sapore ancor prima che il contenuto arrivi al palato. Nulla di paragonabile a un brodo servito in una tazza di asettica porcellana! Ma qui non si tratta soltanto di guardare al “modello orientale”, che tradizionalmente lega gusto e olfatto. Dagli oggetti e dagli interni dei contesti abitativi, l’esperienza polisensoriale si estende fino agli spazi aperti e ai paesaggi. Pensiamo a certi borghi nostrani, dove la bellezza dello scenario naturale si fonde con il recupero della storia culinaria: in quelli che ci appaiono come paesaggi olfattivi e del gusto, il cibo, le sue radici e la sua cultura sono una chiave d’accesso per andare alla riscoperta delle tracce indelebili del passato e dei luoghi della memoria.