Modelli, eroi, soluzioni. Una riflessione sull’uso delle parole in democrazia
Le dimensioni e le implicazioni di questa pandemia sono talmente ampie che qualunque considerazione sembra, almeno parzialmente, inadeguata. Ho iniziato più volte a scrivere questo testo, e ogni volta mi sono trovata a vivere una sorta di sgomento dinnanzi alla (mia) incapacità di condurre una riflessione che tenesse conto di un numero ragionevole di variabili. Poi mi sono resa conto che si corre anche il rischio di “aspettare gli sviluppi”, di “sospendere ogni giudizio” e quindi, in sostanza, di non pensare. E allora a eccomi a condividere, da sinologa, alcune mie considerazioni.
Sono una “sinologa”, un termine desueto con cui, quando mi sono laureata in Lingua e Letteratura Cinese, si indicavano coloro che si occupavano di Cina, sottointendendo che della Cina sapevano TUTTO (naturalmente non era vero!). Mi occuperei di Lingue e di Letteratura, se solo fossi un poco più saggia, invece, complici gli stimoli che provengono da un paese affascinante, complesso, contraddittorio e mai troppo “facile”, mi trovo spesso a partire da una riflessione sulla Cina e poi a…uscire dal seminato.
Molto si è già scritto sul rapporto tra democrazia e gestione efficiente delle emergenze, eppure credo che il tema vada ampliato e riformulato in termini di “democrazia e prevenzione delle emergenze”. In un recente articolo di Internazionale (L'emergenza sanitaria e il rischio del totalitarismo, n.1352), il sociologo Evgeni Morozov sottolinea l’immensa capacità di resilienza del capitalismo e, in sostanza, la profonda ingenuità della speranza che “tutto questo ci serva da lezione” e che si elaborino nuovi modelli di società e nuove idee che da sole trasformino il mondo “in assenza di solide infrastrutture tecnologiche e politiche che rendano effettivi questi interventi”.
Al netto di ogni valutazione contingente sull’operato della politica, credo che esista un rischio molto grave, sul quale occorre riflettere: la strisciante affermazione di stati “soluzionisti”. Per dirla con Morozov: osserviamo che nella totale assenza di riflessioni scomode e serie sulle cause profonde dei problemi, vediamo un abbondare di politiche mirate ad adeguare i comportamenti individuali a quanto brutalmente impone la forza della realtà perché “adesso non c’è alternativa”.
In questa prospettiva le scelte estreme di controllo sociale attuate dalla Cina - ma anche da paesi democratici come la Corea del Sud - hanno incontrato moltissime simpatie, accompagnate e nutrite da una indigesta retorica degli “eroi in prima linea”. Unglücklich das Land, das Helden nötig hat, “sventurata la terra che ha bisogno di eroi” diceva il Galileo di Bertold Brecht nel 1938, alla vigilia di una guerra vera, vigilia con la quale dovremmo oggi condividere la difesa di alcuni valori fondanti delle nostre democrazie. A Covid-19 si accompagnano infatti i rischi dell’affermazione di un inquietante neo-neopositivismo che affida alla tecnologia un ruolo di panacea, che riduce ai margini i corpi sociali intermedi e le forme spontanee di aggregazione non mediate dalla tecnologia. Il “soluzionismo” corre il rischio di sovrapporsi alle ideologie - autocratiche o liberali che siano - stemperandone gli elementi discriminanti anche con l’uso “rassicurante” delle tecnologie, vendute come strumenti per “proteggerci”. Questo pragmatismo apparentemente “a-ideologico” è in grado di maneggiare in modo assai sofisticato gli strumenti del soft-power.
Poco tempo fa ha cominciato a girare sui social cinesi e a rimbalzare tra i sinologi e i cinesi all’estero una dichiarazione di Zhang Wenhong, eminente epidemiologo cinese, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Ospedale della Fudan University, e membro del Partito Comunista Cinese. Questo il testo:
Dopo lo scoppio della pandemia, capita di frequente di vedere un atteggiamento derisorio dei cinesi rispetto ai provvedimenti assunti da altri paesi, che si ritiene dovrebbero fare quello che ha fatto la Cina. Dovremmo piuttosto riflettere sui nostri errori iniziali e, quanto ai nostri successivi risultati positivi, gli altri paesi non possono prendere esempio da noi: hanno sistemi e condizioni diverse. Comunque sia, siamo di fronte a una grave calamità. Di fronte alla pandemia e alle sue vittime, sono entrambi atteggiamenti esecrabili: tanto fare del sarcasmo sul diffondersi dell’epidemia all’estero quanto esagerare e magnificare i nostri successi.
Affermazioni sacrosante: anche io, da sinologa profondamente legata alla Cina, ho letto con piacere quel testo che restituiva l’immagine di una Cina che mi piace, perché non pretende di porsi a nuovo modello alternativo, venato di arroganza e di forme di nazionalismo indigesto. Sui blog cinesi, accanto al plauso generale (qualcuno si augurava che il dottore fosse Ministro della Sanità) c’era tuttavia qualche voce dissonante, e anche chi metteva in dubbio quella dichiarazione provenisse davvero dall’epidemiologo. Ho cercato oggi questi materiali, ma non sono più riuscita a rintracciarli.
Nel frattempo, un prestigioso Ateneo italiano ha pubblicato la traduzione di un volume dello stesso dottore dal titolo: Prevenzione e controllo del Covid-19. Il modello cinese. Si tratta di un innocuo prontuario che enumera in modo chiaro tutte le pratiche di prevenzione che conosciamo. Ma non sono proposti MODELLI, è indicata solo una profilassi che non ha paternità, se non quella della comunità scientifica nel suo complesso. Forse valeva la pena ripensare il titolo. La traduzione, caldeggiata dall’Ufficio Istruzione dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, sostenuta dalla azienda Lenovo, e realizzata in collaborazione dell’Istituto Confucio di quell’Ateneo, è nata su ispirazione di analoga iniziativa in terra d’Iran, dove il volume si chiama semplicemente: Guida alla prevenzione e al controllo del nuovo Coronavirus. La cultura cinese è sensibilissima alle parole; il titolo originale del volumetto è Il nuovo Coronavirus. Suggerimenti per difendersi. (Zhizhao fangkog. Xinguanbingzhiuang bingdu); perché a casa nostra abbiamo ritenuto di chiamare in causa i “modelli”? Forse avrebbe avuto senso la presenza di un commento da parte di qualche esperto epidemiologo essendo la medicina una disciplina di grande tradizione in quell’Università. Ma non c’è.