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La voce ribelle delle studentesse e degli studenti e il senso dell'università

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Rivoluzioni

Studentesse e studenti universitari rivendicano voce sul presente e sul futuro: denunciano il patriarcato come sistema, manifestano contro il genocidio a Gaza e le politiche coloniali di Israele, chiedono la fine del capitalismo fossile. Immediata è la risposta: sono “intolleranti”, “violenti”, “antisemiti”. C’è un nuovo nemico da delegittimare e criminalizzare? Riprendendo un recente contributo pubblicato su Volere la luna, propongo una riflessione su quale debba essere il senso dell’università e il suo ruolo nella promozione di una cultura aperta e plurale.

Studentesse e studenti dei collettivi universitari prendono la parola, denunciano il patriarcato come sistema, manifestano contro il genocidio a Gaza e le politiche coloniali di Israele, chiedono la fine del capitalismo fossile; rivendicano voce sul presente e sul futuro. Immediata è la risposta: delegittimazione e criminalizzazione (sono “intolleranti”, “violenti”, “antisemiti”). C’è un nuovo nemico da delegittimare e criminalizzare: le università? Anche chi insegna e lavora in università riceve lo stesso trattamento, se osa chiedere per Gaza e il popolo palestinese il cessate il fuoco e il rispetto del diritto internazionale.
Neanche gli organi accademici sono risparmiati: emblematici sono gli attacchi scomposti al senato accademico dell’Università di Torino per la mozione sulla non opportunità di partecipare al bando del Ministero degli Affari Esteri sulla cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con Israele, vista la situazione a Gaza.

Certo, il diritto di critica vale per tutti, anche per coloro che, saldamente ancorati alla cultura egemone, obiettano a chi protesta e a chi vota mozioni non allineate, ma ora assistiamo a un rogo mediatico. Le posizioni dei collettivi e del senato accademico dell’Università di Torino, per restare agli ultimi fatti, non sono solo oggetto di discussione: si tenta di privarle di legittimità, escluderle dal novero di quanto può essere detto, espellerle dallo spazio democratico come “non democratiche”. Le reazioni sono spropositate, nel loro rapporto con la realtà, e violente nella delegittimazione, nell’esclusione e nella criminalizzazione che veicolano.

Sono atteggiamenti pericolosamente in linea con la frenesia bellica di un paese, un’Europa, che si armano, culturalmente e materialmente: è la logica binaria della dicotomia amico-nemico, che criminalizza il dissenso e giustifica e insieme fonda la deriva autoritaria.

È la democrazia decidente e plebiscitaria che si sovrappone di fatto, in attesa di formalizzare il passaggio con la riforma sul premierato, alla democrazia pluralista e conflittuale. È lo stesso discorso, su un altro piano, che normalizza, attraverso la disumanizzazione, gli otto morti in mare al giorno nel 2023 o il “trattamento” del disagio sociale con l’allontanamento in nome del decoro.

Anche l’informazione sembra arruolata. “Antisemitismo dilagante” è stato il giudizio della Presidente del Consiglio, riportato in maniera piana, alla pari di un dato indiscusso; ogni volta che ciò avviene si consolida e cristallizza il falso. E allora occorre ribadire, contro l’ignoranza, la mistificazione, la strumentalizzazione, l’ovvio: criticare il Governo di Israele, le sue politiche, ragionare di colonialismo, apartheid e genocidio, non è essere antisemiti. Viviamo in un mondo alla rovescia, dove chiedere il rispetto del diritto internazionale è sovversivo, dove ragionare di principio pacifista è un attentato ai valori democratici, dove manifestare è una concessione, dove essere antifascisti è una colpa.

Ma torniamo all’università.  Anche qui ripetendo quanto dovrebbe essere scontato, il senso dell’università non è sfornare laureati pronti – proni? – al mercato del lavoro (o alla propria colpevolizzazione se non vi trovano posto), ma contribuire  alla costruzione di pensiero critico, che è un percorso costellato di dubbi, ragionamenti, ricerca.

Autonomia universitaria non significa autoreferenzialità e competitività fra atenei ma concretizzazione dell’articolo 33 della Costituzione laddove sancisce che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»; affermazione che a sua volta si connette alla promozione di una cultura, aperta e plurale, coerente con una democrazia fondata sul pieno sviluppo di ciascuna persona e sulla partecipazione effettiva, in una prospettiva trasformatrice.
 


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A fronte del titolo di apertura de La Stampa del 21 marzo, “Università senza pace”, viene da esclamare “per fortuna!”. Grazie alle studentesse e agli studenti che non accettano una pace intesa come “pacificazione” nel senso del TINA (There Is No Alternative), che spezzano la gabbia di acquiescenza e ignavia, che riflettono, discutono e contestano, ricordando all’università il suo senso.

Decenni di aziendalizzazione e privatizzazione, asservimento dei percorsi di studio al mercato del lavoro, ricerca condizionata, meritocrazia, precarietà a oltranza, burocrazia asfissiante, non hanno spento del tutto il desiderio di discussione, di critica, di trasformazione che proviene dalle università. Non è intolleranza, ma dissenso e partecipazione, per rivendicare un'alternativa all’esistente.