L’estasi dell’immagine. Sinestesie tra cinema, Divina Commedia e Albania
Durante l’emergenza coronavirus, in cui in molti sono costretti a fermarsi, si può concedersi del tempo per ordinare le proprie cose. Io ho deciso, con l’occasione, di rivedere una piccola ricerca svolta ai tempi, ormai lontani, del Dottorato in Teoria e Analisi del Testo che collega Dante Alighieri alla cultura albanese.
Il racconto si inserisce nella Proposta di Lettura Magnifiche presenze. Visioni dantesche nella ricerca di oggi. La scelta dell'estratto della Divina Commedia e il relativo commento sono a cura del professor Donato Pirovano e del Comitato studentesco Per correr miglior acque.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.
(Paradiso I, vv. 67-72)
Come il trasumanar è necessario a Dante per oltrepassare la condizione umana e poter contemplare quella divina, così il regista Sergej Mikhailovič Ejzenštejn cerca di andare al di là dell’immagine, per cogliere ciò che si cela dietro ad essa, attraverso «un’uscita da sé».
L’ESTASI DELL’IMMAGINE. SINESTESIE TRA CINEMA, DIVINA COMMEDIA E ALBANIA
Gli studiosi albanesi Ismail Kadaré e Ernst Koliqi sostengono che esiste una fertile analogia tra il mondo di Dante Alighieri e quello albanese, tra lingua italiana e albanese. Già molto tempo prima che il fascismo imponesse Dante come poeta ufficiale della Commedia circolavano in Albania traduzioni, non integrali e molto diffuse anche tra gli strati popolari, che si saldavano con la tradizione orale: le vecchie ballate albanesi echeggiavano, per esempio, l’attraversamento dell’al di là da parte di mortali, o un ritorno di morti per portare a termine un compito. L’analogia che poi forse più colpisce riguarda i cimiteri delle prigioni albanesi: i detenuti che muoiono senza aver scontato la pena devono trascorrere lì sepolti gli anni restanti. Scrive Kadaré: “se nell’inferno dantesco le anime pagano per i peccati del corpo, in Albania erano i corpi a scontare le trasgressioni dell’anima”.
Ma cosa hanno a che fare Dante e l’Albania con la ricerca sui sistemi audiovisivi, e in particolare sul cinema, di cui mi occupo oggi?
Dal Poeta prendiamo in prestito la sua visionarietà: egli ci appare come un sofisticatissimo regista visionario. Le immagini della Commedia ci proiettano mondi soprannaturali, corpi e spazi immateriali e, come accade a lui, così noi, in una sala cinematografica, presi dal film, spesso cadiamo in uno stato ipnotico, quasi “come corpo morto cadde”.
In questa visionarietà, restando alle nostre ricerche, il digitale rispetto all’analogico, lungi dal depauperarla, ci pare esalti la sostanza “estatica” (e anche “epifanica”) delle immagini, mutuando e aggiornando l’estasi progressivamente proposta dall’Alighieri. Sia Dante sia il regista Sergej Mikhailovič Ejzenštejn sembrano proporre un’estasi come un’uscita da sé per dare la stura a una sinestesia di diversi registri espressivi e imprimere la tensione verso una irrappresentabilità dell’immagine. Si tratta dunque di esplorare “l’al di là” delle immagini, di andare oltre l’immagine in movimento bidimensionale, coglierne “il retro”, la parte che sta dietro lo schermo, rendendo dispositivi come il cinema oggetti (estetici, linguistici, cognitivi ecc.) a specificità variabile.
La direzione presa da diverse produzioni o fruizioni (anche per così dire “commerciali”) sottende la visione cinematografica come concentrazione verso quello che Roland Barthes chiama “punctum” dell’immagine, un intervallo, quasi un vuoto che aspira a non essere riempito con l’immagine, un luogo groviera per lasciare spazio tra le cose e innescare una vibrazione tra l’essere e il divenire. A questo proposito, in Pierrot Le fou (1965) Jean-Luc Godard fa dire al suo protagonista che il pittore spagnolo Diego Velasquez, dopo i 50 anni, non dipingeva più cose definite ma “ciò che si trova tra le cose”. Questo non per dipingere il visibile ma quei “cambiamenti misteriosi che fanno penetrare, le une negli altri, le forme e i suoni in una progressione segreta e costante”.
Alla cultura albanese mi sento di assegnare, per via allegorica, la suggestione di una compartecipazione al recupero delle radici e di revisione dello statuto dell’attuale immagine cinematografica.
Parlando di cultura albanese e italiana, Lamerica (Gianni Amelio, 1994) potrebbe incarnarne un esempio. Lo snodo chiave del film che può supportare il nostro discorso riguarda la figura di un vecchio, forse un ex militare italiano della seconda guerra mondiale, rimasto per decenni in un ricovero albanese. Costui verrà riportato in Italia su una carretta del mare che imbarca centinaia di migranti albanesi clandestini. Il vecchio, rimasto fermo con la sua memoria alla fine degli ‘30 crede che, anziché in Italia, questa nave lo porterà, emigrante tra emigranti, in America, il suo luogo del sogno e del riscatto. Riprendendo a specchio le due culture, albanese e italiana, questo film le affilia in viaggio verso un Mondo Nuovo (il Paradiso e l’estasi dell’immagine), dopo aver attraversato, metaforicamente, i due gironi sottostanti.
Lamerica si colloca in un periodo, la fine del ‘900, in cui autori come Peter Greenaway parlavano di morte del cinema sostenendo che, al suo interno, la proliferazione del testo scritto - quindi del dialogo - stava consumando per sempre la costitutiva prevalenza dell’immagine, e che le nuove modalità di fruizione del film ne avevano radicalmente cambiato lo statuto. Evocando Dante però, e collegandolo alla cultura albanese, si potrebbe leggere questa “deriva” del cinema piuttosto come un esilio, un luogo dove giace, mutuando l’espressione di Georges Didi-Huberman, un’“immagine insepolta”, come quella dei morti delle carceri albanesi; o di una migrazione che, pur nella morte, ha lasciato segni della memoria e radici inestirpabili.
Ogni film diventa allora come tutte le Beatrici (nome tra l’altro molto diffuso in Albania) naufragate e morte cercando di raggiungere l’Italia-America primordiale. Beatrice tempo della Commedia come tempo (e movimento) del film, Beatrice limo delle soglie di ogni immagine.