L’Hiv, i giovani e la consapevolezza del rischio da rinnovare
L’Hiv fa meno paura oggi, anche grazie a terapie che hanno migliorato fortemente la qualità della vita dei malati. Il passaggio generazionale ha fatto però perdere memoria del rischio di contagio: l’incidenza più alta è tra gli under 30 e la causa prima è la trasmissione sessuale. La sfida è sviluppare programmi di prevenzione adatti ai giovani.
Secondo i dati più recenti del Centro operativo Aids (Coa) dell’Istituto superiore di sanità, a fronte di un’incidenza di Hiv più o meno costante sulla popolazione totale, l’incidenza più alta dell’infezione si osserva nelle fasce d’età 25-29 anni con 11,8 nuovi casi ogni 100mila residenti registrati nel 2018. Incidenza che sale a 16,2 casi se guardiamo la Regione europea dell’OMS (53 Paesi). Il 9% delle nuove diagnosi segnalate nel periodo 2010-2018 riguarda i giovani sotto i 25 anni, e in particolare quelli tra 18 e 24 anni. La maggioranza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv è attribuibile a rapporti sessuali non protetti, che costituiscono circa l’80% di tutte le segnalazioni. Se negli anni '80 e '90 del secolo scorso c'era una consapevolezza maggiore del rischio contagio, oggi sembra che l'Aids, la sindrome da immunodeficienza acquisita che può sopraggiungere in conseguenza all'infezione del virus Hiv, faccia meno paura o addirittura non sia conosciuta dai giovani di oggi. Cosa è cambiato nella percezione di questa malattia? E cosa si può fare per arginare i contagi in questa fascia di età? Lo abbiamo chiesto al professor Giovanni di Perri, Direttore della Clinica di Malattie Infettive di UniTO e docente di malattie infettive e microbiologia clinica
Professor Di Perri, rispetto a 20-30 anni fa, i giovani di oggi hanno meno paura dell’infezione da Hiv?
I primi anni dell’epidemia dell’infezione da Hiv furono certamente caratterizzati da una percezione ansiogena del rischio che andava oltre la definizione reale dei comportamenti a rischio, un po’ come sta avvenendo in questi giorni con il Covid-19 (coronavirus). Una percezione favorita da un vigoroso sostegno mediatico che si è tradotto in una sensazione di pericolo. Due furono i meccanismi principali che gradualmente fecero adeguare il livello di emotività alla realtà effettiva dell’Hiv tra rischio di contagio e qualità di vita dei pazienti. Il primo è rappresentato da un messaggio trasversale di cautela che partì da chi aveva assistito alla scomparsa dei propri partner, amici, compagni o consorti, e che determinò l’assunzione di una generalizzata prudenza nei comportamenti, con l’adozione delle appropriate misure. Il secondo in Italia passò senz’altro dal lavoro dei SerT (oggi ridenominati SerD), i Servizi Pubblici per le Dipendenze. In quei primi anni la tossicomania principale era rappresentata dall’eroinomania, e lo scambio di siringhe assunse quasi il valore di un rituale di fratellanza, comportando una diffusione purtroppo vastissima fra i tossicodipendenti. Il lavoro di prevenzione dei SerD insieme ad un cambio di rotta nel commercio delle droghe (con graduale passaggio a sostanze non iniettabili) portò ad una progressiva riduzione di rischio in questa particolare popolazione, che oggi rappresenta poco più del 3% dei nuovi casi di infezione da Hiv, laddove a metà degli anni 90 sfiorava il 70% nella generazione di nuove infezioni.
Cosa è successo poi?
C’è stato un passaggio generazionale, e gran parte di questo patrimonio protettivo è andato perduto. Chi oggi è a rischio e si infetta non era forse nemmeno nato nel tempo in cui le varie iniziative mediatiche, la prevenzione pur spontanea nelle scuole e il gran parlarne sortirono una riduzione nei contagi in quella generazione. I contagi, pur in leggera flessione negli ultimi anni, proseguono e mietono vittime fra soggetti per lo più ignari del rischio, e qui è senz’altro identificabile una mancata supplenza preventiva. La paura iniziale e le iniziative di prevenzione, istituzionali e non, non sono state sostituite con nulla di strutturale.
Nel frattempo l’efficacia delle terapie è decisamente migliorata…
Fino a 20-30 anni fa in effetti non erano disponibili terapie antiretrovirali. E solo negli ultimi 10 anni è stata messa a punto una terapia che non solo ha permesso di allungare notevolmente l’aspettativa di vita, ma gioca un ruolo fondamentale nel prevenire il contagio, tanto da garantire, in caso di adeguata aderenza alla terapia da parte del paziente, una vita quasi del tutto normale e una sessualità priva di rischi per il/la partner. A questo proposito, la definizione U = U, ovvero undetectable equals untransmissible (non rilevabile, grazie all’aderenza alla terapia = non trasmissibile), evidenzia il valore preventivo della terapia ma dovrebbe essere sostenuto da iniziative complementari, come un’adeguata educazione al rischio di trasmissione per via sessuale, al fine di sviluppare una coscienza preventiva più matura, da esercitare e trasmettere, soprattutto a chi ne è purtroppo privo.
Può fare qualche esempio specifico di queste iniziative?
Il dato che i giovani tra i 25 e i 29 anni costituiscono il gruppo maggiormente colpito in termini di incidenza sottolinea l’urgenza di strategie di prevenzione mirate agli adolescenti e giovanissimi, considerando anche che l’età media dei primi rapporti sessuali negli ultimi anni è notevolmente calata. Dai dati emerge che l’offerta del test Hiv in contesti informali (test in piazza, auto test, test in strada, easy test, test in sedi extrasanitarie) costituisce uno strumento prezioso per raggiungere i giovani e identificare nuove diagnosi, come si legge anche nel notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità. D’altra parte quasi un quinto dei giovani ha scoperto la propria sieropositività attraverso campagne informative e di screening, mostrandosi più sensibili a questa modalità rispetto agli adulti (18% vs 9,8%). Questo conferma l’importanza di proporre il test Hiv in sedi informali e in occasioni accessibili ai giovani.