Un baule di storie africane: decolonizzare lo sguardo a partire dalle collezioni del MAET
Le collezioni etnografiche e i fondi fotografici conservati al Museo di Antropologia ed Etnografia di UniTo (MAET)1 raccontano le relazioni tra la società italiana e l'Africa nel periodo coloniale. La ricerca qui svolta si propone una lettura critica delle pratiche che riguardano il Museo che, in questi anni di chiusura, affronta le sfide proprie di un patrimonio finora poco studiato e conosciuto.
Nei depositi del MAET (Museo di Antropologia ed Etnografia dell'Università di Torino), circondata da oggetti provenienti da tutto il mondo, mi trovo a osservare un bel baule di pelle: sembra impossibile dargli una collocazione nelle stanze del Museo. Da dove proviene? Come è arrivato a Torino?
Così ha preso vita, quasi cinque anni fa, una ricerca che avrebbe dovuto solo mettere ordine tra i beni conservati. Capita spesso che in questi casi, aprendo piccole porte, si spalanchino portoni. Soprattutto quando ti chiedi che cosa ha condotto qui un oggetto che proviene da un altro continente e non hai i documenti per verificarlo.
Dare risposta a domande di questo tipo, cioè ricostruire la biografia degli oggetti etnografici conservati al MAET, è parte del mio lavoro di antropologa culturale. La mia personale attività di ricerca, in particolare, si concentra da alcuni anni sulla collezione etnografica africana, una tra le più corpose conservate in Museo, che comprende gruppi di oggetti diversi per luoghi, tempi e vie di produzione e acquisizione dalla cui ricostruzione emergono vicende interessanti, se lette in un'ottica di decolonizzazione del patrimonio e della storia delle istituzioni culturali.
La revisione degli inventari del MAET ha visto il baule “spostarsi” idealmente dal Nord America all’Asia, perché attribuito prima alle popolazioni delle regioni nord occidentali del continente americano e poi come proveniente dall’Indonesia. Infine, il baule è stato inserito negli elenchi della collezione africana grazie a una piccola scritta incisa sul suo coperchio “A[frica] ITALIANA” che abbiamo visto quasi accidentalmente e che prima non era stata notata. Non inuit né indonesiano: la sua storia è da ricercare nel Corno d’Africa.
Dalle ex colonie italiane (Libia e Somalia) provengono una ventina di oggetti (contenitori per il latte, oggetti di uso comune, coprisella e borse, monili e oggetti turistici), donati al Museo intorno al 1952 insieme a tre album fotografici. Questi contengono oltre cento fotografie realizzate tra il 1920 e il 1923 nell’allora Somalia Italiana dal torinese Carlo Vittorio Musso (Ceva 1896 - Torino 1982). La ricerca che ha condotto alla datazione degli album e alla loro connessione con gli oggetti ha permesso di ricostruire i primi anni di carriera militare (1917-1924) del generale Musso, quando viaggiò molto tra Europa dell’Est, Somalia e Libia. Questo nucleo di fotografie, seppur poco consistente, offre diversi livelli di analisi e riflessione grazie soprattutto ai soggetti ritratti, ai loro sguardi e alle didascalie che accompagnano le immagini. Inoltre, il baule e gli oggetti, che molto probabilmente hanno viaggiato al suo interno per arrivare sino al MAET, rimandano a relazioni e immaginari che meritano oggi di essere rievocati e decostruiti attraverso le singole storie dei manufatti e i molteplici significati che essi hanno acquisito nel tempo.
Di uso quotidiano, ricordo di viaggio, reperto museale: quante sfumature si possono intravedere nel baule o nei contenitori per il latte caratteristici delle popolazioni pastorali del Corno d’Africa? Decolonizzare il nostro sguardo sul patrimonio vuol dire, tra le altre cose, riconoscere il processo continuo di ri-significazione di cui il patrimonio è parte.
Nella stessa ottica, l'analisi approfondita del fondo fotografico ha permesso di datare gli album, riconoscere alcuni luoghi e soggetti immortalati: informazioni che in passato non erano state, evidentemente, ritenute “interessanti”. Immagini e oggetti, infatti, per lungo tempo sono stati considerati documento di alterità di per sé, “buoni da esporre” solo perché provenienti dall’Altrove. Esempi di una diversità incommensurabile e “inferiore” che raramente venivano interrogati riguardo alle loro provenienze e alle modalità di acquisizione, spesso poco eque e parte di quei complessi e violenti contesti coloniali che hanno visto protagonista il nostro Paese.
L'approccio biografico, utilizzato con queste collezioni, è di fatto la ricostruzione della loro “vita sociale”, che parte dal contesto di produzione/realizzazione e giunge al Museo. Questa prospettiva consente di facilitare un processo di decolonizzazione e almeno in parte di dare voce a quelle soggettività che per troppo tempo non ne hanno avuta. Questo è particolarmente vero per le collezioni archeologiche, antropologiche, etnografiche e di arte africana (di origine coloniale e non), che in Italia sono piuttosto consistenti ma poco conosciute. Anche l'Università di Torino compare tra le istituzioni che conservano tali raccolte. Raramente preso in considerazione, questo patrimonio documenta le relazioni e i contatti che l’Italia intrattiene con l'Africa sin dall'antichità e in cui è possibile distinguere memorie e immaginari utili alla comprensione della nostra comunità nazionale di oggi.
Il patrimonio museale risulta essere un oggetto di ricerca estremamente contemporaneo che meriterebbe un racconto a parte poiché rappresenta una sfida che obbliga a indagare e a far emergere in modo critico i rapporti di forza che storicamente caratterizzano le relazioni tra Africa e Occidente.
Consigli di lettura:
- Grasso E., 2021, «Images from the colony and “interesting subjects”. Archive, memory and the construction of otherness at the Museum of Anthropology and Ethnography of the University of Turin», Visual Ethnography Journal, Ethnography and Photography today: new Perspectives, Technologies and Narratives, Vol 10, N. 2, 14-30
- Grasso E., 2019, «Strade, sguardi, voci. Fondi fotografici inediti e memoria coloniali dall’archivio del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino», Roots-routes, IX, 29
- Grasso E., Mangiapane G., 2019, «Il vaso di Pandora: le politiche di restituzione di Macron», Il Lavoro Culturale, 17/01/2019
- Pennacini C., 2020 «Il Museo di Antropologia ed Etnografia dell'Università di Torino». In Pianificare il turismo. Innovazione, sostenibilità e buone pratiche. Monica Gilli & Sergio Scamuzzi. Roma: Carocci. Pp. 141-150.
- Pennacini C., 2021, «I musei del patrimonio altrui», Doppiozero, Speciale colonialismo
1 Il MAET, fondato nel 1926 e chiuso al pubblico dal 1984, si caratterizza per un patrimonio museale molto eterogeneo (collezioni antropologiche, primatologiche, archeologiche ed etnografiche provenienti da tutto il mondo), frutto di operazioni di raccolta e approcci epistemologici alla diversità umana la cui memoria affonda le radici nel recente passato della città di Torino e del suo Ateneo. Oggi il Museo è al centro di diversificate attività di studio: il lavoro di ricercatrici e ricercatori (principalmente in antropologia fisica e culturale) si concentra sulla ricostruzione delle vicende che hanno determinato la composizione delle collezioni e delle relazioni e traiettorie che sottostanno ai significati a loro attribuiti nel corso del tempo.