E-learning mania. Luci e ombre della didattica online (anche prima della quarantena!)
L’attuale emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha portato a valutare come estremamente vantaggiose le modalità di l’e-learning. Ma quali sono i “contro”? Me lo ero chiesta già qualche anno fa studiando i MOOC da cui emergevano impatti ambivalenti, similmente ad altre esperienze della sharing economy, come Uber o Airbnb.
La situazione emergenziale legata alla pandemia Covid-19 ha portato al centro della ribalta l’e-learning, una grande risorsa nella contingenza, che però solleva una riflessione sui suoi pro e contro. La stessa che ho fatto alcuni anni fa, quando mi trovavo negli Usa per un periodo di ricerca. Era il 2011/12 e alcuni professori di Stanford (seguiti a ruota da altre università di élite come MIT e Harvard) decisero di rendere i loro corsi universitari disponibili online a milioni di utenti, senza alcun costo, se non una connessione internet, proclamando una delle più rivoluzionarie innovazioni didattiche.
Scoppiava così la MOOC-mania (Massive open online courses) e seguì una grande parabola mediatica entusiastica: le nuove tecnologie sembravano risolvere con un click problemi sociali di lunga data, come l’accesso all’istruzione. Era il periodo d’oro delle start up, della sharing economy e dell’ideologia della Silicon Valley, quando sembrava che l’innovazione digitale potesse liberarci dai vincoli materiali e una rinata voglia di partecipazione e collaborazione potesse risolvere molti problemi sociali. Come spesso accade l’entusiasmo arrivò presto in Europa, dove i MOOC trovarono spazio e risorse nell’ambito delle politiche a favore delle Open Educational Resources.
Intanto la ricerca iniziava a interrogarsi sulla loro efficacia, sostenibilità e soprattutto sulle implicazioni in termini di nuove o vecchie disuguaglianze. Decisi così di studiare l’impatto che la diffusione dei MOOC poteva avere a più livelli (macro e micro) e in due contesti geografici e istituzionali molto diversi come Europa e Stati Uniti. È nato così il progetto MOOC_DaSI che mi ha portata per un anno alla Stanford University (Usa) con annesso ritorno all’Università di Torino. Combinando metodi di ricerca quantitativi e qualitativi, a livello macro ci siamo concentrati sulle modalità e le conseguenze che l’introduzione dei MOOC poteva avere sui sistemi di istruzione superiore. A livello micro il focus è stato sulle difficoltà e opportunità che utenti con diversi background socio-economici potevano incontrare, ma anche sulle opportunità professionali e personali che potevano scaturire dai MOOC.
Abbiamo analizzato learning analytics di utenti iscritti ai MOOC della Stanford University e survey data provenienti da MOOC realizzati da diverse università europee e anche intervistato più di 50 fra docenti e learners in Usa e in Europa. Ne è emerso che la popolarità dei MOOC è ambivalente sotto molti aspetti, poiché può creare nuove aree di discriminazione che si sommano a quelle già esistenti, come è accaduto con altre esperienze della sharing economy, vedi Uber o Airbnb.
Da un lato i vantaggi. I MOOC portano benefici per l’attività lavorativa: permettono di accumulare conoscenza e skills specifiche e offrono una buona flessibilità di orario con un basso costo di entrata. Alle persone disoccupate danno la possibilità di tenersi aggiornati e di segnalare abilità e motivazione a futuri datori di lavoro. Sulla sfera personale poi favoriscono una maggiore fiducia in se stessi e la possibilità di sperimentarsi ed evadere da routine e isolamento in un contesto a basso rischio (in termini di costo economico e di controllo sociale).
Eppure i vantaggi non sono per tutti: la frequenza e il completamento di un corso richiedono buone risorse individuali cognitive e non, appannaggio dei learners con alti titoli di studio che hanno più facilmente buone competenze di lettura e comprensione, capacità organizzative, soft skills e auto-determinazione. Inoltre i MOOC non si sostituiscono a percorsi di istruzione formale rischiando, allo stesso tempo, di spostare l’onere della formazione sul lavoratore, spinto a formarsi al di fuori dell’orario lavorativo, con conseguenze in termini di conciliazione vita e lavoro. Inoltre, i datori di lavoro possono usare la propensione all’uso dei MOOC come ulteriore strumento di selezione e discriminazione per lavoratori e candidati più motivati o job-ready.
Infine, nello stesso ambiente in cui sono nati, quello accademico, i MOOC hanno incontrato resistenze, generato nuove tensioni ed esacerbato disuguaglianze già esistenti fra istituzioni di diverso prestigio e fra i diversi attori: componente accademica e leadership di ateneo, docenti strutturati e non. Le resistenze sono legate ai rischi derivanti da una trasformazione tecno-ingegneristica dell’istruzione terziaria e da una deriva neoliberista che mette al primo posto il profitto dietro una pretesa di neutralità della tecnologia.
Se dunque la modalità di e-learning, e nella fattispecie i MOOC, siano strumenti di indubbia utilità, soprattutto in un contesto di emergenza come quello attuale, occorre rimanere vigili e non affidarsi acriticamente alla capacità della tecnologia di risolvere i grandi problemi sociali. Personalmente auspico che questa emergenza sia anche occasione di (ri)sollevare un dibattito critico sul ruolo delle diverse forme e modelli di istruzione digitale.
MOOC_DaSI è finanziato da una Marie Slodowska Curie Global fellowship ed è stato realizzato da Valentina Goglio, sotto la supervisione di Paolo Parigi (Stanford University, Airbnb) e Sonia Bertolini (Università di Torino) e con la collaborazione dell’European Commission Joint Research Center (Seville, Spain).