Guardare gli alberi dalla parte delle radici
Quando si parla di Storytelling ci si riferisce in generale all’“arte di raccontare storie”. Occuparsi di Storytelling però non significa solo saper confezionare una buona storia, ma anche avere la capacità di ascoltare con attenzione i racconti degli altri, le loro storie di vita. È come guardare gli alberi dalla parte delle radici: un cambio di prospettiva che aiuta a prendersi cura delle persone.
Secondo una definizione molto diffusa, lo Storytelling sarebbe “l’arte di raccontare storie”. Un’arte che si può mettere al servizio della letteratura, della pubblicità, della politica, ma anche della menzogna e della manipolazione.
Pochi però prendono in considerazione il fatto che occuparsi di Storytelling non significa solo saper raccontare, ma anche saper ascoltare i racconti altrui e, soprattutto, saperli valorizzare. Occuparsi con attenzione dei racconti della gente comune, delle storie di vita, vuol dire iniziare a guardare gli alberi dalla parte delle radici: un cambio di prospettiva che è anche un modo per provare a prendersi cura verso gli altri.
Il mio pensiero va a un intervento narrativo che feci intorno al 2016 presso un ospedale infantile. Durante un laboratorio di scrittura rivolto ad adolescenti del reparto di neuro-psichiatria, proposi un’esercitazione che io intitolo “Elvis Presley sta bene e vive su un’isola del Pacifico.”
Il lavoro prende spunto in maniera ironica dalla leggenda che vorrebbe il famoso cantante ancora in vita a godersi la vecchiaia al riparo dal rumore del mondo. Il compito assegnato consiste nell’inventare una versione non ufficiale della vicenda biografica di un personaggio famoso deceduto in circostanze misteriose: in questa versione, il personaggio è vivo e spiega, in una lettera, i motivi per cui ha simulato la propria morte.
Le ragioni dell’efficacia di questo esercizio sono molteplici, ma in quel caso l’obiettivo principale era quello di ottenere, da parte delle giovani pazienti, una narrazione che, sotto l’apparenza di un racconto di finzione offrisse agli operatori sanitari qualche brandello di non-fiction, di realtà autobiografica.
Questo obiettivo fu raggiunto praticamente subito: ben tre pazienti su nove, scelsero, in maniera del tutto indipendente l’una dall’altra, di dare una seconda vita a Kurt Cobain, il cantante dei Nirvana che nel 1994 si tolse la vita con un colpo di fucile a soli 27 anni di età.
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Di queste tre storie la più interessante fu quella raccontata da Giorgia (il nome è, ovviamente, di fantasia). Come richiesto dall’esercizio Giorgia si inventò una vicenda in cui Kurt aveva simulato la propria morte. E perché?
L’immaginario Cobain creato da Giorgia lo spiegava in una lettera inviata alla figlia, molti anni dopo la scomparsa. Secondo Giorgia, Kurt avrebbe deciso di scomparire per sottrarsi alle percosse della moglie (povera Courtney Love!) e al giro di droga che lei gestiva.
Come previsto dal protocollo, il racconto passò agli psichiatri e agli psicologi che iniziarono a informarsi meglio sulla situazione familiare di Giorgia e, alla fine, scoprirono che la mamma di Giorgia aveva un compagno, all’apparenza rispettabilissimo, che picchiava lei e la figlia e che spacciava nei quartieri alti.
La storia di Kurt Cobain era servita a Giorgia da specchio per riflettere la propria, per raccontare ciò che era impossibile dire in prima persona. E così, grazie a questa storia, i medici riuscirono a guardare Giorgia e i suoi problemi da un’angolatura diversa.
Ecco un esempio di cosa vuol dire “guardare gli alberi dalla parte delle radici”.