La superficie degli utensili di pietra rivela la lunga strada verso… la pizza!
Quando i nostri antenati si diffusero in Europa circa 40mila anni fa, trovarono condizioni climatiche fredde e dovettero competere con i Neanderthal per l'approvvigionamento del cibo, a causa della scarsa disponibilità di prede di grossa taglia. Poche migliaia di anni dopo, Homo sapiens risultava l'unica specie sopravvissuta. Il "perché" è un tema molto dibattuto! La mia ricerca - nell'ambito del progetto T4C* - indaga le abilità tecnologiche di Homo sapiens nel ricavare nutrienti anche dalle piante: associato ai vantaggi biologici, potrebbe essere stata questa la chiave del suo successo!
Questa storia inizia circa 40mila anni fa, con la comparsa di Homo sapiens in Eurasia, una regione molto vasta, abitata sin da circa 300mila anni, da gruppi umani arcaici: l’Homo Neanderthalensis e l’Homo di Denisova.
Il territorio, caratterizzato da un clima prevalentemente freddo e arido, era ricoperto da steppa/tundra con aree forestale. Queste condizioni determinarono le caratteristiche della fauna: scarseggiando i mammiferi di grossa taglia, che costituivano una risorsa ricca di grassi e proteine, furono animali magri come cavalli, cervi e bisonti a diventare la principale risorsa alimentare. Le risorse energetiche, derivanti dal consumo di prede veloci e magre, erano ancora più limitate in inverno al punto da mettere a rischio la sopravvivenza dei cacciatori-raccoglitori del Paleolitico che facevano affidamento su grandi quantità di grasso.
Una risorsa disponibile tutto l'anno era invece rappresentata dalle piante, grazie al loro contenuto di amidi (noti anche come zuccheri o carboidrati) altamente energetici, immagazzinati nei frutti e negli organi sotterranei come radici, tuberi, bulbi e rizomi. Ora, se la fisiologia di Homo sapiens permette di assimilare efficacemente nutrienti di origine vegetale, al contrario la dieta di Neandertaliani e Denisoviani era essenzialmente carnivora. Questa strategia alimentare può avere garantito ai nostri antenati diretti un vantaggio decisivo, mentre le altre due specie si estinsero dopo poche migliaia di anni di coesistenza.
Come fare a verificare questa ipotesi? La prima cosa da fare sarebbe cercare residui vegetali nei siti archeologici ma trovarli è molto difficile, perché raramente si conservano. La nostra attenzione si è allora focalizzata sugli strumenti di pietra usati per pestare e macinare le diverse parti vegetali ricche di amido quali radici, tuberi, bulbi, semi, frutta a guscio ecc., per ottenere degli sfarinati.
Ci siamo quindi concentrati sulle tracce che la lavorazione delle piante lascia sulla superficie degli strumenti litici (fig.1) e sui residui vegetali microscopici che restano intrappolati nelle asperità delle pietre (fig. 2). Lo studio coinvolge diversi gruppi di ricerca provenienti da Italia, Francia, Moldavia e Russia.
Il mio progetto Retrieve a novel: new multi-scale surface texture analysis of ground stone tools (REVEAL) si incentra su quegli strumenti di pietra non scheggiata, quali macine e pestelli, utilizzati circa 32mila anni fa da Homo sapiens. L’approccio investigativo comprende analisi a varie scale che sfruttano i vantaggi di tecniche con capacità di ingrandimento crescenti.
Il primo passo in questa lunga via verso... la pizza (!) consiste nel replicare i gesti dei nostri antenati per la trasformazione delle piante in farine (fig. 3) usando l’archeologia sperimentale. Questo prevede: procurarsi ciottoli e lastre di pietra da usare come macine (base, strumento passivo) e pestelli (strumento attivo da tenere in mano); raccogliere e preparare le piante che dovranno infine essere pestate e macinate per ammorbidire le parti ricche di amido, rendendole così più facili da masticare e digerire (fig. 4). Gli obiettivi sono creare repliche di strumenti sulle cui superfici si possono osservare le tracce lasciate dalla lavorazione di risorse vegetali di varia durezza e consistenza (fig. 5) e confrontare le tracce d’uso con quelle osservate su macine e pestelli archeologici. Questo confronto ci permette di dimostrare l’uso intenzionale di semplici ciottoli e lastre per trasformare le piante ricche di amidi in risorse alimentari, fin dal Paleolitico superiore.
A questo scopo ho progettato la mia ricerca impiegando tecnologie investigative con crescente capacità di ingrandimento. Lo studio include l’analisi macroscopica della geometria degli oggetti litici e l’ispezione delle loro superfici e rugosità a scala microscopica e nanoscopica (fig. 6). La produzione di modelli 3D degli strumenti paleolitici permette di ispezionare l'intera superficie dello strumento, identificando aree potenzialmente modificate dall'uso intenzionale. Queste presunte aree funzionali sono quindi state ulteriormente analizzate con differenti microscopi, incluso il microscopio elettronico a scansione (SEM, Scanning Electron Microscope, uno speciale microscopio che usa gli elettroni come fonte energetica e che rende possibile l'osservazione a scala nanometrica, superando quindi il limite della risoluzione della microscopia ottica). L’impiego di quest’ultimo ci ha permesso anche di confermare l’associazione tra residui e tracce d’uso.
I nostri dati permettono di proporre non solo una nuova chiave di lettura per il subitaneo successo della nostra specie, basata sulle strategie di procacciamento di cibo, ma anche l’ingresso dei carboidrati nella nostra dieta.
*Il progetto T4C (Technologies for Cultural Heritage) è finanziato dal programma Horizon 2020 per la Ricerca e Innovazione dell'Unione Europea, in accordo con il Marie Skłodowska-Curie grant agreement N. 754511.