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Ecosistemi, Biodiversità e Comportamento animale

L’empatia nel mondo animale: siamo davvero così diversi dai “non umani”?

Foto: Unsplash.

Uno dei tanti interrogativi che gli esseri umani si pongono riguardo agli altri animali è se essi possano provare empatia come noi. Esiste, cioè, uno spettro di emotività che gli animali riescono a esprimere, condividere ed eventualmente comprendere?
Ne abbiamo parlato con il professor Norscia, antropologo di UniTo che si occupa anche di comportamento socio-emotivo dei primati non umani.

Intervista a cura di Stefano Alessandria, Davide Buglino, Ilaria Gigliotti, Clelia Gribaldo.

Spesso, osservando gli animali non umani e il loro modo di relazionarsi con noi e con i propri simili, tendiamo a mettere in evidenza quanto ci assomiglino, attribuendo loro comportamenti che appartengono al mondo umano: in pratica, guardiamo con occhi “umani” esseri che in realtà “umani” non sono. Nell’approfondire questo argomento, ci siamo resi conto che sarebbe stato più opportuno esaminare la questione partendo da una prospettiva meno antropocentrica, ossia cercando di analizzare quali ‘mattoni’ contribuiscono a ‘costruire’ quei comportamenti sociali ed empatici che tendiamo, erroneamente, a categorizzare come esclusivamente umani siano presenti anche negli altri animali.

Siamo due studentesse e due studenti frequentanti il primo anno di Scienze Biologiche e per chiarire i nostri dubbi in merito, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare il professor Ivan Norscia, antropologo specializzato in etologia e primatologia, dell’Università di Torino, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, da anni impegnato in progetti di ricerca che studiano il comportamento socio-emotivo dei primati non umani, partendo dai lemuri del Madagascar per arrivare alle scimmie antropomorfe.

Ecco cosa è emerso da questo incontro. 

Qual è il significato di empatia? È presente nel mondo animale?
L’empatia è un concetto vastissimo e, nella sua dimensione più ampia e complessa, può essere riassunto nella capacità di provare quello che gli altri provano e comprendere le emozioni altrui. La prima componente è più automatica, mentre la seconda richiede capacità cognitive più complesse.
La definizione che include entrambe le componenti è applicabile agli esseri umani (anche se non tutti, giacché la variabilità umana si distribuisce lungo un continuum di diversità), per i quali gli elementi di ‘comprensione’ sono più chiari. Nel caso degli animali non umani è necessario partire da fenomeni che viaggiano su un canale più automatico, implicito, per poi procedere oltre. Come sostengono De Waal e Ferrari, è necessario mettere da parte la prospettiva top-down (dall’alto verso il basso) che colloca gli umani al vertice e li usa come termine di paragone (e che porterebbe domande come: “gli animali non umani hanno la stessa forma di empatia degli umani?), e adottare un approccio bottom-up (dal basso verso l’alto), che in un’ottica comparativo-evolutiva si domanda quali siano i tasselli costitutivi di tali capacità e qual è la forma attraverso cui, eventualmente, le esprimono.
Gli esseri umani appartengono all’ordine dei primati e non sono comparsi ‘dal nulla’, ma sono frutto di un lunghissimo processo evolutivo, per gran parte condiviso con altri animali e in particolare mammiferi. È dunque sensato ricercare le basi di fenomeni umani complessi in altri animali, in particolare mammiferi e, ancora più in specifico nei primati non umani. 

Cosa emerge dunque dalla letteratura riguardo all’empatia negli animali non umani?
Tra le svariate definizioni di empatia troviamo quella basata sul modello della matrioska di De Waal e Preston, secondo cui ciascun guscio della famosa bambola russa rappresenta livelli di empatia sempre più complessi, che richiedono crescenti capacità di distinzione tra sé e l’altro, e la cui presenza dipende dalla complessità cognitiva della specie animale in questione.
Al primo livello troviamo il contagio emotivo, automatico, attraverso cui una stessa emozione viene trasferita da un individuo all’altro, senza che questo processo debba essere elaborato a livello cosciente. Con il concetto di consolazione, secondo livello del modello, il grado di complessità aumenta. Nelle specie animali in cui il fenomeno della consolazione è presente, si osservano comportamenti affiliativi (o ‘amichevoli’), come un contatto fisico, effettuati da un individuo nei confronti di un altro, che si trova in uno stato di ansia dopo essere stato coinvolto in un evento stressogeno (per esempio se è stato vittima di un’aggressione). Tali comportamenti hanno un effetto calmante (consolatorio, appunto). La consolazione richiede che un individuo abbia la capacità di riconoscere che l’altro si trova in una condizione emotiva diversa dalla propria e agisca in maniera ‘efficace’ per cambiare la situazione. La consolazione è stata dimostrata, tra gli animali non umani, nelle scimmie antropomorfe e nei maiali. Infine, il terzo guscio della matrioska, include la capacità di immedesimarsi nell’altro e comprenderne gli stati emotivi. Questa capacità è la più difficile da dimostrare scientificamente, perché gli animali non umani non possono rispondere a domande o questionari volti a stabilire la presenza di tale capacità.
La definizione di Jean Decety considera l’empatia non come un fenomeno multilivello, ma come un processo induttivo che richiede la basilare capacità di distinguere tra le emozioni autogenerate da quelle altrui. Su questo processo si fonderebbero altri fenomeni, come il contagio emotivo o la consolazione, che ne costituirebbero quindi non la base, ma il risultato.
Queste due visioni (tra le tante presenti in letteratura), anche se molto diverse tra loro, sono di fondamentale importanza, poiché permettono di “slegare” l’empatia dalla presenza di capacità cognitive avanzate, aprendo quindi la strada allo studio dell’evoluzione dell’empatia partendo, ad esempio, dai mammiferi e dai primati non umani.

Ci sembra dunque di capire che empatia e istinto siano legati tra loro… è davvero così? Se sì, in che modo?
Più che di “istinto” dovremmo parlare di “sfera automatica” attraverso cui si può avere il trasferimento di un’emozione da un individuo all’altro. Questo trasferimento, noto appunto come “contagio emotivo”, può avvenire attraverso le espressioni facciali e altre azioni che convogliano stati emotivi (come dolore e felicità) e che possono essere “replicati” da altri individui che stanno osservando chi sta provando in prima linea quelle emozioni. In questo caso si può parlare, ad esempio, di “mimica”, se la replica avviene entro un secondo o pochi secondi. Questa non è l’unica modalità, ma una di quelle che la letteratura suggerisce essere legata al contagio emotivo, una possibile forma base di empatia.

Come si fa a comprendere se due individui sono emotivamente legati?
In etologia la vicinanza emotiva si può evincere ad esempio dalla vicinanza sociale, data da quanto due individui trascorrono tempo insieme, magari seduti vicini o in contatto, a parlare o, nei primati non umani, a ‘spulciarsi’ reciprocamente (comportamento denominato grooming). È importante notare che, dal punto di vista scientifico, occorre poter registrare fenomeni che siano osservabili e oggettivamente misurabili e la cui misura sia replicabile.

C’è differenza tra l’empatia degli umani e degli animali non umani?
A oggi non sappiamo quale tipo di empatia, se presente, sia proprio di mammiferi sociali non umani, perché non è facile elaborare protocolli scientifici per investigare il fenomeno e perché questo campo di ricerca è ancora poco esplorato. Negli animali non umani che, come accennato sopra, non rispondono a questionari o interviste e che non esprimono emozioni attraverso un linguaggio articolato, la ricerca per il momento lavora molto sulla sfera automatica dell’empatia, per esempio verificando se è presente, tra gli individui di un gruppo sociale, il contagio di certi comportamenti o espressioni a valenza presumibilmente positiva o negativa (come il gioco o l’aggressione, la risata o l’espressione facciale della paura). Un altro aspetto che viene investigato è relativo alla presenza della consolazione che, come visto, è un fenomeno già cognitivamente più complesso.

Oltre ai fenomeni automatici a cui faceva riferimento prima, quali altri fattori regolano l’empatia?
Lo studio di fenomeni ‘automatici’ rimanda all’ambito biologico, non necessariamente appreso, dell’empatia. Tuttavia, sarebbe assurdo escludere elementi di apprendimento sociale e occorrerà, nel futuro, investigare come, durante la crescita, gli individui possono modulare o modificare il proprio comportamento a possibile base empatica a seconda degli stimoli sociali a cui sono esposti (ad esempio, il tipo di interazioni con la madre e con gli altri componenti del gruppo).

Come si struttura un esperimento che possa verificare l’effettiva relazione tra mimica e contagio emotivo (forma base di empatia)?
Non è semplice condurre studi “controllati” in condizioni naturali o naturalistiche, perché dobbiamo sempre rispettare l’approccio scientifico, di stampo galileiano, e disegnare protocolli che tengano conto di variabili che potrebbero interferire con il rilevamento dei dati, l’elaborazione dei risultati e portare a conclusioni non corrette. Per quanto riguarda la mimica delle espressioni facciali, possibile mezzo attraverso cui avviene il contagio emotivo, ad esempio, occorre chiedersi se è presente nella specie di cui ci occupiamo. Un metodo utilizzato in letteratura è quello di dimostrare - con un approccio statistico quantitativo - che è più probabile che l’individuo “A” replichi l’espressione facciale dell’individuo “B” quando “A” può percepire tale espressione rispetto a quando non la può percepire (condizione di controllo). Una volta poste queste condizioni, se osserviamo che la mimica si manifesta maggiormente tra individui più legati socialmente, oppure prolunga certe interazioni sociali, allora possiamo ipotizzare che non si tratti semplicemente di un fenomeno motorio, ma che dietro ci sia il trasferimento e la condivisione di stati emotivi, propri dell’empatia affettiva.


Giunti al termine dell’incontro con il prof. Norscia molti dei nostri dubbi sono stati risolti, ma molti altri ne sono sorti, ad esempio si può parlare di empatia tra specie diverse? La capacità di provare emozioni ed empatia nelle scimmie antropomorfe, indica che le loro azioni possano essere mosse da un primo germoglio di moralità? 

Di una cosa però siamo certi, questo ambito di ricerca si è rivelato essere incredibilmente fecondo e ancora in gran parte da esplorare.

Ringraziamo il professor Norscia per la sua disponibilità e, a sua volta, il professor Norscia conclude ringraziando noi per l’opportunità. 

Intervista a

Ivan Norscia
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

A cura di

Redazione FRidA
Pubblicato il

21 febbraio 2024

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