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Fondamenti di chimica

Basta un poco di sale e la microplastica va su! Ecco come scovarla nel mare

Foto: plastica raccolta durante il Community Cleanup sul litorale di Hamilton, Canada. Jasmin Sessler / Unsplash

Non solo le microplastiche costituiscono un grave problema per l’ecosistema marino, ma tramite la catena alimentare esse entrano direttamente nel nostro organismo con effetti nocivi per la salute. Come tutti i problemi che necessitano di soluzioni urgenti, anche questo va studiato, per esempio quantificando la loro presenza e classificando i tipi di plastica riscontrabili in mare. Ma quali tecniche possiamo applicare per la loro estrazione e riconoscimento?

È mattina presto, siamo in uscita per andare al lavoro o a scuola - o, in tempi di pandemia, pronti a sederci nelle nostre postazioni di lavoro o didattica a distanza - eppure abbiamo già (inconsciamente) rilasciato delle microplastiche nell’acqua dello scarico di casa. Sebbene infatti in Italia dall’inizio del 2020 sia vietato introdurre microplastiche nei prodotti cosmetici, ancora oggi parte dei dentifrici e delle creme che usiamo quotidianamente contengono piccole particelle/sfere di plastica - dal diametro inferiore ai 5 mm (in gergo tecnico chiamate appunto microplastiche), che aiutano il prodotto a esplicare la propria funzione, ma che poi sono scarsamente abbattute dagli impianti di trattamento e finiscono in tutti gli ambienti acquatici, compresi i mari. E, purtroppo, le microplastiche possono derivare anche dalla degradazione di qualsiasi manufatto in plastica (persino le stesse reti da pesca rilasciano microfibre). Una volta raggiunto l’ambiente marino, queste particelle interagiscono con gli esseri viventi che lo popolano, veicolando sostanze inquinanti e arrecando, quindi, possibili rischi per gli ecosistemi marini e per noi stessi esseri umani.

Lo studio della presenza di microplastiche negli ambienti marini è di essenziale importanza, sia per comprenderne la contaminazione attuale, sia per sviluppare tecniche in grado di promuoverne la rimozione. Ma come quantificare le microplastiche nel mare, discriminandole correttamente da tutte le altre particelle presenti (per esempio granelli di sabbia o pezzetti di alghe)?
Per trovare la risposta, basta tornare un po’ indietro nel tempo, fino ad Archimede, richiamando il concetto di galleggiamento: se un corpo possiede una densità minore del liquido in cui è immerso, questo riceve una spinta verso l’alto, galleggiando. I polimeri che compongono le principali plastiche possiedono una densità relativamente bassa tale per cui, in determinate condizioni facili da ottenere, possono galleggiare, separandosi quindi dalle particelle più pesanti (per esempio la sabbia).
Come raggiungere queste condizioni di separazione? Sfruttando il fenomeno per cui quando si fa un bagno al lago si galleggia di meno rispetto che nell’acqua di mare: la presenza di un sale. Infatti, un sale disciolto in una soluzione (in questo caso il cloruro di sodio, costituente principale del comune sale da cucina, NaCl per noi chimici) comporta un aumento della densità della soluzione stessa, promuovendo quindi, nel caso delle microplastiche, il loro galleggiamento.

Dunque, dopo aver raccolto campioni di acqua marina con sedimenti ed esseri viventi (procedure complesse, come racconta qui il collega Nicola Nurra, poiché le microplastiche sono piccolissime e ubiquitarie) è sufficiente aggiungere specifiche quantità di sali per favorire il galleggiamento delle microplastiche, che possono così essere isolate e quantificate e/o riconosciute tramite microscopia o spettroscopie.

E se ci fossero particelle di materia organica leggera, come frammenti di alghe, in grado anch’esse di galleggiare? Nessun problema, ci pensa la reazione di Fenton, che, grazie alla presenza di ferro e acqua ossigenata sviluppa delle specie reattive (i cosiddetti radicali ossidrilici) in grado di degradare selettivamente la materia organica, senza attaccare le plastiche, che rimangono pertanto inalterate.

I risultati? Applicando questi protocolli, lavorando anche in collaborazione con l’Università di Porto, di recente abbiamo scoperto come su 100 mg di sedimento oceanico (circa l’equivalente di un pugno di sabbia) sono presenti mediamente tra le 30 e le 60 microplastiche, non meno di 10-12. In particolare, la maggior parte di esse si presenta sottoforma di microfibre, capaci poi di interagire con il biota marino (dai pesci ai molluschi) costituendo un pericolo sia per questi organismi, sia a cascata per l’essere umano, come racconta qui la collega Erika Cottone.


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