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Culture, Produzione culturale e artistica, Filosofia

Leopardi e la luna: quando il canto diventa filosofia

Vincent Van Gogh, Dopo la tempesta (Pastore con un gregge di pecore), 1884

Nei Canti, e soprattutto nel Canto notturno, Leopardi è insieme sommo filosofo moderno e perfetto poeta, capace di portare a compimento in modo del tutto nuovo quello che la tradizione e lo statuto stesso della poesia - il punto più alto del discorso umano - gli suggeriscono.

Nel Canto notturno, Leopardi ha tradotto in lirica un soggetto apparentemente refrattario alla lirica stessa, come il pensiero o le idee, rivelandosi, in effetti, sommo filosofo moderno e perfetto poeta.
Fin dalla prima strofa Leopardi stabilisce una relazione di analogie e differenze tra luna e pastore: simili nel loro andare avanti dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, ma anche molto diversi per natura: l’uno mortale, l’altra immortale. Questa relazione è la condizione di una comprensione profonda tra la luna e il pastore. Alla domanda dell’uomo in pena, bisognoso d’amore e grazia (a che serve la mia vita? perché io sono qui? dove sto andando?) segue la domanda del filosofo, che spinge la sua curiositas fino a interrogarsi sull’essere in sé (a che serve il tuo essere? perché tu sei tu? perché tu sei ciò che sei?).

Pastore e luna nel loro andare e “riandare” sono accomunati dal non avere una meta, dall’andare verso il nulla: si percepisce qui una sorta di nostalgia della promessa di salvezza religiosa oltre la morte che animava i suoi predecessori, tra cui Petrarca, ma che ha abbandonato i moderni. Così la luna fredda, indifferente, estranea diventa l’immagine del nulla.
La speranza di un senso torna però, subito dopo, nella quarta strofa, quando si instaura di nuovo il rapporto di intimità tra il pastore e una luna che forse “comprende” il perché delle cose, la natura dello spazio e del tempo, e la ragione dell’infelicità umana. E riemerge la curiositas del filosofo: Che vuol dir questa/Solitudine immensa? ed io che sono?

“In ultimo il filosofo ne sa quanto il pastore - commenta Francesco De Sanctis - e quello che appare ignoranza e semplicità del pastore, è appunto la verità”. In altre parole, ciò che il pastore non sa è la verità. È la luna, immortale, a conoscere il tutto. La verità non è la somma delle conoscenze acquisite e progressivamente acquisibili dall’essere umano, ma è ciò che egli non sa (raggiungere o dire): è una verità non disponibile ma non per questo meno vera, avvicinabile solo, forse, con un’intuizione.

Sul finire del Canto compare la similitudine gregge-luna: il silenzio del primo è la caricatura del silenzio della luna, e la dolcezza mite della condizione animale (incosciente) lo specchio deformante della purezza sublime della Vergine (cosciente). E anche qui Leopardi tiene alto, fermo e instancabile il timbro delle domande: che fai?Perché?, che vuol dir?, Ed io?, in quella che pare una preghiera alla Vergine Maria. Ed è questa “vergine luna”, che non si china sul pastore come una madre sul figlio, essa stessa la verità: astratta, candida, fredda, non umana né dolce, che non dice niente e, come il gregge, potrebbe non aver niente da dire, o, come dio, potrebbe aver tutto da dire. Così l’amore per questo dio passa attraverso l’amore per il gregge. L’onda affettiva, che sospinge e sostiene fin da principio del Canto l’impulso teorico e la pura interrogazione (dimmi, che fai, dimmi...) si allarga quando entra in scena il gregge, beatamente in riposo sull’erba. Questo “basso” ha a che fare con l’alto. L’incoscienza della pecora ha a che fare con la stessa coscienza (di sé, del perché) della luna. L’abisso buio della materia è la sorgente da cui sgorga l’aria emotiva che raggiunge il cielo della luna, e lassù, dove non ci sono parole, si chiude in discorso poetico: il sommo del discorso umano. Ma un dio o ente ‘non mortale’, assolutamente silenzioso, come potrebbe parlare altrimenti?

Questa storia di ricerca si trova in:


un racconto di
Giorgio Luigi Maria Ficara
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

15 luglio 2019

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