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RSA: la punta dell’iceberg di un modello che nega dignità e pieni diritti

Photo by Pablo Hermoso on Unsplash

Lo scandalo che ha travolto le RSA in questi mesi di emergenza ha riacceso i riflettori sulle strutture che ospitano gli anziani. Ma per capire e superare gli enormi limiti di questi e altri luoghi di ricovero, è necessario ripensare da capo l’intero sistema sociosanitario e cambiare la concezione stessa che ancora abbiamo dei cosiddetti “fragili”, dando loro una dignità vera di assistenza e piena cittadinanza.

Nel vostro racconto di ricerca Fragili a chi? avete messo in discussione il concetto di fragilità affermando che chi comunemente è percepito come fragile, come i portatori di disabilità fisiche o cognitive, sia in realtà più resiliente in una situazione emergenziale come quella vissuta a causa di Covid-19. Altra categoria di “fragili” sono gli anziani che, al di là dell’oggettiva maggiore fragilità fisica nel fronteggiare il virus, sono purtroppo stati le vittime anche laddove avrebbero dovuto essere protetti in modo particolare. Ci riferiamo alle RSA: di che tipo di strutture si tratta? E cosa, a vostro avviso, ha reso così terribile quelle situazioni?
Le Residenze Sanitarie Assistenziali sono strutture in cui vengono ricoverate persone anziane più o meno autosufficienti e attualmente, in Italia, esse ospitano circa 300mila persone oltre i 65 anni. L’RSA è l’esempio di una risposta istituzionalizzata a un bisogno articolato e determinato dalle molte componenti dell’età anziana: di ordine fisico, psicologico, sociale, biografico, esistenziale. A fronte di questa complessità, la risposta offerta è un luogo. La recente triste sorte degli anziani in RSA non si riesce a comprendere se analizzata solamente nella dimensione sanitaria (sono morti perché erano anziani), come è stato trasmesso dai media, ma è un fenomeno complesso da inserire in un più ampio movimento per i diritti umani. È necessario conoscerlo per riuscire a declinare proposte che superino il radicato modello dell’istituzionalizzazione.

Cosa si intende, dunque, per istituzionalizzazione?
Era il 1961 quando si lavorava per superare il manicomio e il sociologo Ervin Goffman descriveva i meccanismi dell’istituzionalizzazione. Nel linguaggio comune, e a volte anche nei discorsi di addetti ai lavori, il livello di istituzionalizzazione sembra dipendere dal luogo dove una persona vive: se abito in un grande istituto, con centinaia di altri ricoverati, allora sono istituzionalizzato; se abito con pochi altri, in un luogo più piccolo, non lo sono.
Questo modo di ragionare si è visto bene nelle settimane scorse in cui, come soluzione alla morte di tante persone in RSA, si è pianificato di creare strutture più piccole che, avendo meno ospiti, sarebbero di per sé deistituzionalizzate e quindi più sicure.

Ma non è così, vero?
Franco Basaglia diceva che l’istituzionalizzazione è un modo per «circoscrivere l’altro, per segnare i confini oltre i quali non gli si permette di agire». Questi confini possono essere visibili come le sbarre di un luogo, ma anche invisibili. L’opposto di istituzionalizzazione, allora, è cittadinanza. E chiamiamo deistituzionalizzazione il processo che porta una persona da prigioniera di confini circoscritti da altri a essere cittadina, in un sistema di legami, scambi reciproci e ruoli nella comunità. A oggi, nella nostra cultura, vi sono delle condizioni che “giustificano” l’istituzionalizzazione.

Per esempio?
Se vi dicessi che c’è un appartamento dove vengono tenuti dei bambini, che non possono uscire se non tutti insieme, che non possono mai scegliere cosa mangiare o bere e che se si agitano vengono legati ai letti, pensereste, indignati, che è una enorme violazione dei diritti. Se vi dico che la medesima situazione riguarda persone con disabilità, o anziane, questo rientra nei fenomeni “ammissibili”. Questo approccio, caratterizzato da uno squilibro di potere, è quello che noi chiamiamo istituzione totale.

Come si fa allora ad assistere con dignità queste persone?
Occorre considerare dimensioni diverse dalla grandezza o dal numero di posti di un luogo, ovvero l’attraversabilità e la personalizzabilità. Rispetto al primo concetto: quante persone di ogni età e status (non solo operatori e volontari) entrano d’abitudine nelle RSA ogni giorno? Nessuna. Lo dimostra il fatto che i decreti hanno limitato le visite ai familiari, presupponendo siano gli unici interessati.
Quanto contano poi le dimensioni biografica, personale, esistenziale e sociale nella quotidianità di una persona in RSA? Nulla: gli ospiti mangiano, si svagano, dormono, vengono aiutati a lavarsi sempre e solo in orari stabiliti, nei modi stabiliti e dalle persone stabilite dall’organizzazione. Di qui la negazione della personalizzabilità.
Se sei anziano hai due alternative: la solitudine a casa tua o, se hai bisogno di molto aiuto, la struttura. Questo riflette un modello di sanità ospedalocentrica, a volte sostenuto da importanti finanziamenti, che si è rivelato del tutto inadeguato a fronteggiare l’emergenza Covid: basti vedere che i picchi di mortalità e di contagio si trovano nelle regioni che hanno contratto la spesa dell’assistenza domiciliare e della medicina territoriale, che invece, a nostro avviso è la via davvero in grado di restituire dignità e cittadinanza a queste persone… Ma deve essere adeguatamente articolata e finanziata.
Quello che vogliamo dire in pratica è che i morti in RSA sono la punta dell’iceberg, la dimensione maggiormente visibile di un sistema sociosanitario da ripensare da capo.

Quindi dove devono stare questi 300mila che citavi prima attualmente nelle RSA?
Il punto è cambiare domanda: non più dove lo metto? bensì come lo sostengo? In altre parole, come faccio a fare in modo che il signor Mario, di 87 anni, possa continuare a vivere dove e come desidera, accudito nei suoi bisogni, riconosciuto come cittadino, vicino ai suoi affetti?
La risposta è il lavoro territoriale, l’organizzazione di servizi nella sua comunità che permettano a Mario di continuare a essere trattato come persona - e non come “un insieme di bisogni” - di vivere dove desidera, incontrando persone, dal panettiere ai vicini di casa, che si preoccupano di lui ogni giorno e permettono di farlo indipendentemente dalla quantità di sostegno che serve. Un esempio di questo modo di prendersi cura lo si vede nel docufilm La città che cura di Erika Rossi.

Come si inserisce tutto questo nella vostra attività di ricerca?
Come Centro Studi per i diritti e la vita indipendente ci interroghiamo sulla deistituzionalizzazione e sulle modalità necessarie per garantire l’esercizio dei diritti a ogni cittadino, qualunque siano le sue caratteristiche. Le nostre ricerche si focalizzano principalmente sulla disabilità, un’altra condizione per cui sembra lecito pensare che gli istituti siano l’unica risposta possibile ai bisogni complessi che genera. Il processo di deistituzionalizzazione, dunque, accomuna ogni ambito politico e sociale che richiede di compiere un passaggio da istituzione a servizi basati sulla comunità, che meglio rispondano alla complessità di cui ogni persona è dotata e che offrano un ventaglio ampio di opportunità sulla base di uguaglianza con gli altri.

Nella convinzione che sia necessario anche un cambio di prospettiva culturale vi chiediamo: avreste consigli di libri o altro per chi volesse approfondire questi temi?
Per capire a fondo queste questioni, è fondamentale la lettura di È tutta salute. In difesa della sanità pubblica, Edizioni Gruppo Abele, 2018 [di cui si può trovare un’anticipazione qui].
Per quanto riguarda il superamento del manicomio, che è una parte importantissima della storia del nostro paese, la si può conoscere con il libro di Peppe Dell’Acqua, Non ho l’arma che uccide il leone, edizioni Alfa Beta Verlag, con il film C’era una volta la città dei matti e con lo spettacolo teatrale Tra parentesi, la vera storia di un’impensabile liberazione di Peppe Dell’Acqua e Massimo Cirri.

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