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Processi sociali e politici, Legge e Comunicazione

Fragili a chi? Pensiamo l’impossibile fuori dai soliti frame

Photo by Jiang Xulei on Unsplash

Abitualmente le persone con disabilità e le loro famiglie sono considerate strutturalmente fragili. Ora, in tempi incerti e complessi, che ne è di questi cittadini “fragili”? A sorpresa sono loro i più resilienti. Così, la messa in discussione del nostro quotidiano consente di alzare lo sguardo verso nuovi modi di intendere la diversità.

Si chiama frame narrativo ed è un elemento che può influenzare la forma assunta da un fenomeno sociale: agisce come le illusioni ottiche in cui la figura appare di colore diverso, più chiaro o più scuro, sulla base del colore della cornice che la racchiude (fig. 1). Allenarsi a cercare il frame narrativo rende un po’ scienziati: diventandone consapevoli la nostra percezione dei fenomeni sociali si inganna di meno.

Guardiamo ad esempio al fenomeno sociale chiamato fragilità. Secondo il frame narrativo più diffuso si tratta di una caratteristica individuale: così come si può essere biondi o avere la pressione bassa, si può essere o non essere fragili. Questo ci porta a dire che ci sono delle persone fragili che ora sarebbero maggiormente impattate dalle misure di isolamento fisico imposte.

Le misure anti contagio hanno reso la vita di tutti più complicata: gesti semplici, come la spesa o incontrarsi con un amico, sono diventati attività di complessa organizzazione. Il quotidiano è diventato incerto, programmare è diventato articolato e, a lungo termine, impossibile. Tra noi, c’erano però cittadini che erano già allenati a vivere in un mondo ostile. Le persone con disabilità complessa e le loro famiglie vivono sempre in questa modalità esistenziale a causa della forma delle nostre città e dalle nostre abitudini sociali e culturali che strutturano un mondo per loro inaccessibile.

Così, invece di essere, come tutti si sarebbero aspettati, i primi a sgretolarsi, guardando da vicino le loro storie, si rivelano i più capaci, i più preparati, i più resilienti. Rompono quindi il frame narrativo che inserisce la disabilità in una cornice di commiserazione, minorità e passività, invitandoci a guardare la disabilità con altri occhi, come fa l’attivista Stella Young in questo famoso video.

Ma allora la fragilità, esiste o no? O meglio: che fine fa questo concetto fuori dal frame narrativo in cui di solito è collocato?

Il momento che attraversiamo conferma ciò che molti studiosi hanno teorizzato: la fragilità si spiega solo in un frame narrativo collettivo. Le persone non sono strutturalmente fragili, ciò che le rende tali è la rete sociale in cui sono immerse.
Le reti sociali consentono alle persone di vivere e sono fatte da tanti pezzi: amici, familiari, vicini, colleghi. Ma anche il barista che sa come voglio il caffè, il tizio o la tizia che mi chiede l’ora o se gli/le guardo la borsa mentre va al bagno: tutti coloro che, anche solo incrociandomi per strada, mi riconoscono come cittadino/a.
Di solito sono invisibili, ma adesso le vediamo perché nella quarantena è proprio delle nostre reti sociali che sentiamo la mancanza. Le vediamo perché, come l’aria, ci accorgiamo che c’è quando la sentiamo mancare.

Stiamo quindi scoprendo che la differenza tra chi ce la fa da solo e chi ha bisogno è un’illusione ottica. Il Covid offre un nuovo frame che ci mostra come la fragilità non sia una condizione individuale ma sia data dalla carenza di reti: chi in un certo momento non è fragile non è più forte o più meritevole di altri, ma semplicemente è immerso in una rete - invisibile - che gli consente di essere, ogni giorno e pienamente, cittadino. Questo ha a che fare con gli studi sulle disuguaglianze sociali, cioè sulle opportunità che ciascuno ha nel corso della sua vita per costruirsi questa rete.

Il frame narrativo che scegliamo ci rivela un presente diverso ma anche, soprattutto, un futuro diverso. Siamo abituati a immaginare tanti futuri ma in un unico frame possibile: una società governata dai più forti, dai più sani, dai più ricchi in cui i fragili possono essere aiutati o esclusi, ma restano comunque “altri”. Questo momento di grande crisi, invece, spariglia le carte e forse ci è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del sistema sociale in cui siamo immersi. Possiamo immaginare che la scienza ci porti su Marte, ma non credere che la società che abbiamo costruito non sia l’unica possibile. Quindi? Cosa fare?
“Si tratta” scrive Benedetto Saraceno nel suo recente Psicopolitica, “di fare della speranza un progetto di ricerca, un lavoro di innovazione sia degli strumenti di comprensione della realtà sia di azione nella realtà. [...] così speranza e utopia cessano di essere illusione e da sguardo ottimistico sul futuro diventano sogno in attuazione”.


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