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Processi sociali e politici, Legge e Comunicazione

Genere e diritto: quali spazi per una giustizia femminista?

Questa ricerca muove dall’assunto per cui l’esercizio della funzione giurisdizionale non solo non è gender-blind, ma risponde spesso a logiche prettamente maschili e indaga le modalità con cui integrare la prospettiva di genere nell’amministrazione della giustizia al fine di svelare la natura sessuata del diritto e i suoi effetti.

«Ci possono anche essere leggi buone, ma poi la macchina della giustizia è tutt’altra cosa: in un tribunale, in un processo, che alcune considerano addirittura uno strumento politico tra i tanti possibili, si riproducono rapporti di forza determinati e sfavorevoli alle donne».
Così, qualche decennio fa, Lia Cigarini anticipava le ragioni che hanno condotto all’organizzazione nei primi anni 2000 di numerosi “tribunali delle donne” in diverse realtà asiatiche, africane, latino-americane e, più recentemente, europee. Questi tribunali hanno svolto un ruolo di svelamento della verità in contesti post-bellici che facevano i conti con un passato di crimini efferati contro le donne. Negli ultimi anni sono anche fioriti diversi progetti - per lo più anglosassoni - che hanno impegnato diverse giuriste nella riscrittura di alcune celebri decisioni giudiziarie adottando una prospettiva di genere: il fine era dimostrare che esiste lo spazio per fare in modo che le corti inizino a interpretare le regole giuridiche vigenti nella consapevolezza del loro carattere sessuato. Sono quindi emerse nuove nozioni di giustizia che tengono conto della realtà delle vite femminili.

Ma è possibile trasferire questi esperimenti accademici nella quotidiana amministrazione della giustizia? Se sì, attraverso quali strumenti? È a queste due domande che ho cercato di rispondere negli studi recentemente pubblicati.
Si tratta senza dubbio di un lungo cammino che sicuramente deve passare attraverso l’incremento della diversità di genere nella composizione delle corti, in particolare quelle europee e costituzionali, in cui non v’è alcuna trasparenza nei meccanismi di selezione e nomina dei giudici. Eppure una maggiore presenza femminile nelle corti non è di per sé garanzia dell’assunzione della prospettiva di genere nell’attività giurisdizionale perché «femminile» non è sinonimo di «femminista».
L’unico strumento mi pare allora possa essere quello di una presenza femminile nelle corti sufficientemente ampia da riuscire a dar voce a più femminismi, che non risponda più alla logica del «tokenism» ovvero della nomina di una donna «simbolo» o, comunque, di un numero irrisorio di donne nei luoghi decisionali, tale da neutralizzarne il ruolo e azzerare le possibilità di sovvertire le gerarchie di genere.

La diversità di genere nelle corti pare quanto mai necessaria oggi, soprattutto se consideriamo l’accentuato pluralismo delle società contemporanee, in cui il dialogo tra diversi pensieri femministi è cruciale. Basti pensare alle decisioni di casi assai controversi che hanno avuto un impatto enorme sulle esistenze femminili e sui corpi delle donne: tra queste le pronunce che hanno legittimato il licenziamento di donne che non osservano il divieto di abbigliamento religioso nei luoghi di lavoro; quelle che, nell’avallare leggi che proibiscono i copricapo femminili islamici, hanno trascurano l’effetto di emarginazione che queste hanno sulle donne, spesso migranti; o ancora, le delicate pronunce in materia di surrogazione di maternità.
Tutte questioni decise, per lo più, senza che vi sia stato un confronto tra le voci dei femminismi contemporanei che, seppur diversi, consentono di porre nelle aule dei tribunali quelle domande necessarie a far emergere come il diritto possa silenziosamente e inavvertitamente tralasciare le prospettive delle donne.

Questa storia di ricerca si trova in:


un racconto di
Mia Caielli
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

27 marzo 2019

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