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Epidemiologia, Terapie e Politiche sanitarie

Farmaci e sport: la tattica vincente è la prospettiva di genere

L’enfasi mediatica dei mondiali di calcio di questi giorni, dovuta in Italia al successo delle azzurre, ha riaperto il dibattito sulla presenza delle donne nello sport e negli ambienti tarati sul maschile. In ambito farmacologico includere il femminile apre la strada allo studio di chi non si colloca nella rigida classificazione uomo-donna.

Silvia De Francia, dal tuo racconto di ricerca Farmacologia di genere: gli effetti collaterali preferiscono le donne, è emerso come le maggior parte dei farmaci provochino più effetti collaterali nelle donne perché in fase sperimentale sono stati testati solo su uomini. Vale anche per i farmaci assunti dalle sportive in caso di traumi o altri malanni che potrebbero compromettere la performance? A che punto è la ricerca su questo piano?
La sperimentazione clinica dei farmaci, in ambito sia terapeutico sia sportivo, è tuttora in stallo con una netta disparità nell’arruolamento numerico tra donne e uomini. A oggi siamo al 30% circa dell’arruolamento delle pazienti di sesso femminile. Farmaci molto comuni e in commercio da anni come aspirina, antidolorifici in generale e antipertensivi sono stati testati sempre e soltanto sul modello maschile: uomo, 70 kg di peso, età media. Le donne hanno un fisico e degli organi mediamente più piccoli rispetto agli uomini: ogni farmaco, dunque, tanto per cominciare, dovrebbe essere somministrato in base al calcolo della superficie corporea del paziente da trattare, onde evitare sovradosaggio ed eventuale tossicità nelle donne.

Se parliamo di differenze di genere in ambito di farmaci e sport, fare un discorso davvero inclusivo implica parlare anche di persone transgender e intersex. Ci sono studi a riguardo?
Risale a dicembre scorso uno studio ampio a riguardo, uscito sul Current Sports Medicine Report, analisi che include considerazioni anche sociali, restituendo un quadro da cui emerge la necessità di porsi delle questioni che vadano oltre la rigida classificazione dei due generi, maschile e femminile. Una classificazione che nello sport ha la sua ragion d’esser nel fatto che alcuni parametri fisici maschili sono nettamente superiori a quelli femminili (forza muscolare, capacità polmonare, resistenza, ecc.).

Ci sono però persone che, facendo un percorso di transizione di genere, mantengono lo sport di origine a livello agonistico. La questione da porsi è allora dove collocare una o un transgender il cui fisico cambia essenzialmente da un punto di vista ormonale, ma in cui dimensione degli organi e capacità polmonare, ad esempio, maggiore negli uomini, rimangono quelle precedenti.
Altro punto da sottolineare: io, insieme a pochi altri colleghi in Italia, parlo di necessità di sperimentazione farmacologica sulle donne. Ma mentre lo dico so di fare un discorso già vecchio: non solo la sperimentazione sulle donne dovrebbe essere la routine, oggi, ma bisognerebbe anche ritarare gli studi farmacologici ad hoc su qualsiasi individuo non si collochi in una classificazione rigida uomo-donna. Per arrivare davvero a curare tutti ed a farlo in modo adeguato.

In questo senso i movimenti femministi e LGBTQI sono di aiuto per dare un impulso alla ricerca?
Bisogna considerare che le istanze che questi movimenti fanno proprie vanno nel verso dell’eguaglianza, essenzialmente dei diritti, volta a cancellare qualsivoglia discriminazione. Giustamente, aggiungo. Parliamo di parità di salari, di ruoli professionali, di possibilità, di scelte. Nel mio lavoro, invece, sottolineo come il raggiungimento dell’eguaglianza in termini di salute debba necessariamente passare attraverso l’analisi delle differenze biologiche esistenti fra organismi, dunque oggettive, producendo studi completi e, di conseguenza, terapie mirate e adeguate. Si tratta quindi di due piani diversi che, lungi dall’essere in contrapposizione, si completano a vicenda andando nella stessa direzione.

Quando si parla di farmaci e sport la prima cosa che viene in mente è il doping, un'opzione intrapresa da singoli individui ma che spesso coinvolge un intero sistema. Oltre a essere una scelta illegale e condannabile sul piano etico, il doping sappiamo che comporta rischi per la salute. Come si differenziano questi rischi in base al genere?
Va fatta una premessa: qualsiasi sostanza o pratica medica che modifichi le funzioni dell’organismo non a scopo diagnostico o terapeutico può essere classificata come sostanza dopante. In ambito sportivo il doping punta a incrementare la performance di un atleta in ambito di efficienza psico-fisica. Tra donne e uomini l’approccio al doping è sostanzialmente differente Le prime tendono a usare sostanze atte a risolvere problemi fisiologici tipicamente femminili, come quelli legati all’apparato urinari, puntando quindi a eliminare in modo massivo i liquidi al fine di smaltire gonfiori che potrebbero limitare le performance sportiva. Converrete però che un conto è assumere diuretici in caso di ipertensione, un conto è farlo quando si è giovani e sani… Ci sono poi regolatori che possono ridurre gli effetti degli sbalzi ormonali durante il ciclo femminile, minimizzando le mestruazioni. Per gli uomini, invece, l’impiego del doping è volto essenzialmente a incrementare la potenza muscolare: anabolizzanti e ormoni sessuali maschili, quali, per esempio, il testosterone, possono favorire lo sviluppo muscolare e la crescita del tessuto osseo. Gli anabolizzanti, tuttavia, vengono impiegati anche dalle donne. E, se negli uomini tali sostanze possono dare impotenza, le donne rischiano, invece, effetti virilizzanti, con alterazione del ciclo mestruale e sterilità, perdita dei capelli e irsutismo. In conclusione, dunque, gli effetti del doping “tarato al maschile” sulle donne sono assolutamente devastanti.


Questa storia di ricerca si trova in:


Intervista a

Silvia De Francia
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

A cura di

Redazione FRidA
Pubblicato il

12 dicembre 2022

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