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Culture, Produzione culturale e artistica, Filosofia

Le «nostre sorelle silenziose». Primo Levi e la «poesia solenne» delle piante

Gustav Klimt, L'albero della vita, 1905-1909

Cuore di legno e Una valle sono due liriche di Primo Levi che, nell’Anno Internazionale della Salute delle Piante, dimostrano a pieno come la letteratura sia sensibile alla vita vegetale sul nostro pianeta: sono due esempi dedicati a quegli esseri che vivono con noi formando una parte importante del nostro ecosistema, che soffrono come noi se questo non è in equilibrio.

Il maestoso e archetipico albero della Genesi, le iconiche ed eziologiche trasmutazioni vegetali delle Metamorfosi ovidiane, la significativa lotta della Ginestra di Leopardi, l’illuminazione di Siddharta sotto l’ombra del fico delle pagode: pochi esempi, tra i tanti, con cui la cultura ci insegna quanto è preziosa la natura. Senza dimenticare i versi dei grandi poeti italiani del Novecento: d’Annunzio, Pascoli, Montale, Rebora, Zanzotto, tra gli altri, che alle piante hanno dedicato poesie uniche.

E così anche Primo Levi: due sue poesie sono dedicate a due alberi particolari, significativi e simbolici, e ben si prestano a una lettura ecocritica. Cuore di legno, del 1980 e raccolta in Ad ora incerta, ha per protagonista un ippocastano, epitome della natura torturata dalla modernità torinese.

II mio vicino di casa è robusto.
È un ippocastano di corso Re Umberto;
Ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
In aprile, di spingere gemme e foglie,
Fiori fragili a maggio,
A settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
Emulo del suo bravo fratello di montagna
Signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
I tram numero otto e diciannove
Ogni cinque minuti; ne rimane intronato
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
Dal sottosuolo saturo di metano;
E abbeverato d'orina di cani,
Le rughe del suo sughero sono intasate
Dalla polvere settica dei viali;
Sotto la scorza pendono crisalidi
Morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
Sente e gode il tornare delle stagioni.

Il coetaneo «vicino di casa» di Levi è avvelenato dalla vita di città: nonostante voglia «far credersi / emulo del suo bravo fratello di montagna / Signore di frutti dolci e di funghi preziosi», «non vive bene» perché l’urbanizzazione, il traffico e l’inquinamento lo intossicano e lo piagano. Vuole evadere e «cresce storto, come se volesse andarsene». Eppure, «nel suo tardo cuore di legno / Sente e gode il tornare delle stagioni»: sente ancora, dunque è, e come tale merita rispetto, poiché più di uno sono i benefici di cui è capace nel suo silenzio.

È il contrario, invece, per la rigogliosa flora di Una valle (in Altre poesie, 1984) dove un albero, quasi ai limiti di altitudine dove agli alberi è concesso arrivare, gode di una salute invidiabile.

C'è una valle che io solo conosco.
Non ci si arriva facilmente,
Ci sono dirupi al suo ingresso,
Sterpi, guadi segreti ed acque rapide,
Ed i sentieri sono ridotti a tracce.
La maggior parte degli atlanti la ignorano:
La via d'accesso l'ho trovata da solo.
Ci ho messo anni
Sbagliando spesso, come avviene,
Ma non è stato tempo gettato.
Non so chi ci sia stato prima,
Uno o qualcuno o nessuno:
La questione non ha importanza.
Ci sono segni su lastre di roccia,
Alcuni belli, tutti misteriosi,
Certo qualcuno non di mano umana.
Verso il basso ci sono faggi e betulle,
In alto abeti e larici
Sempre più radi, tormentati dal vento
Che gli rapisce il polline a primavera
Quando si svegliano le prime marmotte.
Più in alto ancora sono sette laghi
D'acqua incontaminata,
Limpidi, scuri, gelidi e profondi.
A questa quota le piante nostrane
Cessano, ma quasi sul valico
C'è un solo albero vigoroso,
Florido e sempre verde
A cui nessuno ha ancora dato nome:
È forse quello di cui parla la Genesi.
Dà fiori e frutti in tutte le stagioni,
Anche quando la neve gli grava i rami.
Non ha congeneri: feconda se stesso.
Il suo tronco reca vecchie ferite
Da cui stilla una resina
Amara e dolce, portatrice d'oblio.


Là dove l’uomo deve faticare per arrivare e addirittura «le piante nostrane / Cessano», ecco apparire, maestoso, «un solo albero vigoroso, / Florido e sempre verde». Lo stupore di Levi è tanto che, per esprimersi, lo paragona all’archetipico albero della Conoscenza nell’Eden, alludendo alle scritture bibliche. Al contrario del suo simile urbano, «Dà fiori e frutti in tutte le stagioni, Anche quando la neve gli grava i rami»: pulsa di vita, «feconda se stesso». È un re maestoso: svetta in alto, «quasi sul valico», e controlla la mitica valle la cui veduta è incastonata nelle parole di questa poesia: «Verso il basso ci sono faggi e betulle, / In alto abeti e larici / Sempre più radi», fin su, dove non si sa «chi ci sia stato prima / Uno o qualcuno o nessuno». Un’oasi naturale «incontaminata», come l’acqua dei sette laghi «Limpidi, scuri, gelidi e profondi» che la irrigano.

La presenza delle piante nel nostro ecosistema e per la nostra sopravvivenza è fondamentale, eppure spesso ci dimentichiamo quanto le offendiamo, le mutiliamo o le distruggiamo. Come sottolinea la FAO, costituiscono l’80% del cibo che ci nutre e producono il 98% dell’ossigeno che respiriamo. Come fanno? Da chimico, Levi non può esimersi da spiegarne il perché e lo fa in modo estremamente poetico in Carbonio, nel Sistema periodico: le piante, «nostre sorelle silenziose», sono antichissime e prodigiose, conoscono la «poesia solenne […] della fotosintesi clorofilliana» e la sua «chimica fine e svelta»; «Se l'organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a noi, sulla scala dei miliardi di tonnellate alla settimana, dovunque affiori il verde di una foglia, le spetterebbe di pieno diritto il nome di miracolo»: ma un miracolo che a causa di parassiti e malattie, spesso provocate in modo più o meno diretto dall’azione umana, viene talvolta stroncato sul nascere, senza cura per il destino di questi vitali esseri viventi, e quindi di noi stessi.

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