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Vincere la paura dell'incertezza abituandosi al cambiamento

L’emergenza Covid-19 ha portato notevoli trasformazioni nella nostra quotidianità gettandoci, sotto diversi aspetti, nell’incertezza, che a sua volta genera dubbi o domande: come far fronte a questa situazione? Quanto durerà? E cosa differenzia i dubbi di un virologo da quelli di un complottista? Lo abbiamo chiesto al filosofo Giacomo Pezzano, che studia il modo in cui viviamo e consideriamo le trasformazioni e in particolare le conseguenze della diffusione delle ICT e dell’ingresso nell’infosfera.

La situazione attuale ha comportato un’enorme trasformazione repentina che ha investito vari aspetti della nostra quotidianità: come possiamo affrontare tutto questo?
Attingendo a quelle risorse concettuali di cui siamo dotati, e che ci permettono di capire e accettare le trasformazioni. Sono risorse importanti, che però non sfruttiamo abbastanza: tendiamo a guardarci intorno vedendo cose anziché processi, cioè stabilità anziché mutamento. In realtà, sappiamo che persino un sasso è in costante trasformazione, lentamente levigato dal contatto con l’aria e gli agenti atmosferici, ma finiamo per non farci troppo caso: questo certamente ci aiuta a “mettere dei punti fermi” e a dar forma alle nostre routine, ma ci rende più esposti quando i cambiamenti arrivano tutti insieme all’improvviso. Eppure essersi allenati per tempo fa la differenza quando il gioco si fa duro, o, purtroppo, persino drammatico. Per fortuna, basta un piccolo esperimento quotidiano per cominciare a esercitarsi: provare di tanto in tanto a osservare il mondo indossando un paio di “occhiali processuali”!

Questo è possibile anche oggi? Se sì, in che modo?
In realtà, il lockdown, che piaccia o meno, ci sta già sollecitando a fare qualcosa di simile. Prendiamo un esempio, di cui si parla spesso. Diversi rapporti di coppia considerati come assodati e immodificabili si stavano trasformando in una “gabbia”, in maniera inavvertita, quasi sotterranea. Pur essendo dolorosa, la scoperta da parte della coppia stessa può far scattare una molla, a patto di non gettar via le “lenti processuali” in preda allo spavento: esse permettono di accorgersi della necessità di provare a rimettersi in discussione insieme, o di rendersi conto che chiudere del tutto un capitolo della propria vita, pur essendo una scelta difficile, saprà portare a un miglioramento. Sia chiaro, in nessun caso si tratta di passi semplici, ma cominciare a farci pratica aiuta: è il significato di abituarsi al cambiamento, almeno quel po’ che basta a non esserne del tutto travolti.

Più in generale, quali sono le conseguenze antropologico-filosofiche delle trasformazioni che stiamo ora attraversando?
Gli eventi che fanno irruzione nella normalità cancellano ogni riferimento passato: si viene proiettati in un nebuloso punto interrogativo, che fa desiderare certezze persino più di quanto non si facesse prima. Se questa nuvola circonda solo me, posso provare a fare affidamento su chi ne è fuori; ma se ci troviamo tutti nella nebbia, lo smarrimento diventa moneta corrente e il modo per uscirne bisogna inventarlo insieme. Di per sé, noi esseri umani siamo tanto “neofobici” quanto “neofiliaci”, perché le novità al contempo ci spaventano e seducono: in una fase come la presente, il primo sentimento predomina (è sacrosanto!), ma facendo leva anche sul secondo possiamo evitare di rimanere intrappolati nella foschia.

All’incertezza, come quella che ha pervaso la nostra quotidianità e la nostra percezione del futuro sul breve e lungo termine, si accompagna il dubbio. I dubbi di medici e scienziati che ancora poco conoscono le conseguenze del virus, e che non hanno ancora tutte le risposte su cura e prevenzione. Ma anche i nostri dubbi. Tra i primi e i secondi si insinuano dubbi e domande che assumono toni e modalità complottiste e che facilmente si diffondono tramite i mass media e le comunicazioni digitali. Come distinguere allora tra le diverse forme del dubbio e del non sapere? In cosa si differenzia il dubbio del virologo da quello del complottista?
Posso essere stolto: avevo comprato una mascherina per proteggermi il viso e so di averla messa in un cassetto, ma non so più quale. Posso essere ignorante: non ho la minima idea di come funzioni un virus. Posso essere incerto: non sono sicuro che il farmaco che sto sperimentando in laboratorio sarà la cura che cerchiamo. Mettiamola così: il dubbio dell’ignorante capita in un incontro occasionale, quello dell’incerto nasce all’interno di una frequentazione assidua, ed è una differenza non da poco.
Non è solo per limiti personali che è difficile riconoscere che si dubita in tanti modi: la nostra cultura ci ha abituato alle domande sul significato della conoscenza, ma ci ha fatto fare forse meno palestra con i sensi della non-conoscenza. Avevamo per esempio la gnoseologia o l’epistemologia, ma soltanto da poco è nata l’agnotologia, che ha cominciato a cercare strumenti per sapere come funziona il nostro non sapere. Una bella sfida!

Di che cosa si tratta nello specifico?
Rispetto alla gnoseologia e all’epistemologia, che studiano con strumenti filosofici come funziona l’acquisizione delle nostre conoscenze, l’agnotologia è invece la “scienza della non-conoscenza”, nata ufficialmente poco più di una decina di anni fa. Un agnotologo si concentra sui diversi volti dell’ignoranza (tanto oscuri quanto luminosi), studiando con occhio antropologico e storico tutti quei processi sociali e culturali lungo i quali perdiamo la nostra conoscenza: sono i casi in cui per esempio dimentichiamo (volontariamente o involontariamente) ciò che sappiamo, non abbiamo accesso a ciò che dovremmo sapere, o riusciamo a “disimparare” per poter poi reimparare.
È molto importante arrivare a capire meglio i nostri “non so” e non solo per avere familiarità con l’incertezza: basta infatti pensare che quella dei Big Data è una società della memoria, in cui - a differenza del passato - i dati vengono di default conservati, così che bisogna decidere attivamente che cosa non salvare, che cosa cancellare, ossia ciò che desideriamo non sapere.

Che cosa significa e cosa comporta dire "non so"?
Il classico “so di non sapere” alla Socrate ricorda giustamente che nessuna conoscenza è assoluta e inconfutabile, ma è anche una creatura ambigua. Si può dire “non so” per insinuare il sospetto fine a se stesso su tutto, limitandosi a demolire, oppure per capire la tenuta delle mura, cercando di aprire nuove porte senza far crollare tutto d’un colpo. Nel secondo caso, il “non so” mette in moto il nostro motore di ricerca: c’è qualcosa che non so, proprio come un investigatore che sente di aver fiutato una pista interessante. Conoscere significa certo arrivare a sapere qualcosa, passando dall’ignoranza al sapere, ma prima ancora vuol dire arrivare a sapere che c’è un determinato qualcosa che non si sa, cioè passare dall’ignoranza all’incertezza: un buon “non so” non è altro che una buona domanda, un dubbio che fa fare passi avanti. Questo vale per gli scienziati, certo, ma anche per la nostra esperienza di piccole o grandi scoperte quotidiane: l’incertezza è per la conoscenza quel che l’ombra è per la luce. L’una non c’è senza l’altra.

Questa storia di ricerca si trova in:


Intervista a

Giacomo Pezzano
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

A cura di

Redazione FRidA
Pubblicato il

02 novembre 2023

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