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La mente umana e la sua complessità, Educazione e Linguaggio

Quanto mi fa paura la tua paura. Un esperimento in corso in tempo di Covid

Photo by Aarón Blanco Tejedor on Unsplash

Negli esseri umani, il riconoscimento dell’emozione della paura espressa dal volto dell’altro è un processo rapido ed automatico. Esso risulta particolarmente interessante in un’ottica interindividuale durante un periodo ad alto impatto emotivo, come quello della diffusione del SARS-CoV-2.

Una persona vicino a noi mostra sul volto l'emozione della paura. Il nostro cervello decodifica questa immagine automaticamente e rapidamente, prima ancora che quanto sta accadendo sia per noi manifesto, ovvero consapevole. Ed ecco che il nostro corpo, sotto la guida del nostro cervello, mette in atto una serie di modifiche (come l’aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria, e della tensione muscolare) per prepararci a fuggire oppure a combattere. Un meccanismo davvero primordiale che anni di evoluzione non sembrano aver scalfito. Perché tutto questo accade? Se il nostro sguardo e la nostra attenzione si spostassero dal volto dell'altro allo spazio circostante, potremmo forse scorgere un immediato ed evidente pericolo, come un predatore; o forse no? Di certo l'espressione impaurita di chi è vicino a noi non è un segnale che possiamo ignorare: “Se ha paura, avrà percepito un pericolo” , diciamo a noi stessi. E se è un pericolo per l'altra persona, perché non dovrebbe esserlo altrettanto per noi? Possiamo davvero temere qualcosa, se non riusciamo a scorgerlo veramente? Ma per avere paura, poi, è davvero necessario fissare negli occhi il pericolo?

I have a constant fear that someone's always near
Fear of the dark, fear of the dark
I have a phobia that someone's always there

(Fear of the dark - Iron Maiden)

Al tempo del SARS-CoV-2, abbiamo avuto la conferma che si può avere paura per qualcosa che non è percepibile con gli occhi. In queste settimane, quando con il nostro sguardo abbiamo attraversato lo spazio intorno a noi, quello fisico delle nostre case e dei nostri luoghi di lavoro (se ancora accessibili) e quello virtuale (videomessaggi e condivisioni social), fino a quello dei media (le immagini dai giornali alle interviste in tv), abbiamo incontrato i volti impauriti di altre persone, piuttosto che il volto del nostro “predatore”.

Numerose evidenze scientifiche hanno confermato come l’osservazione dell’altro, dalla sua espressione verbale e non-verbale al suo comportamento, sia rilevante per l’apprendimento della paura, tanto quanto il fare personalmente esperienza della situazione di pericolo.

In questa situazione di esposizione all’espressione della paura sul volto dell’altro, la nostra abilità di percepirla si è modificata? Siamo diventati più ipersensibili, ovvero più rapidi nel riconoscere un volto di paura? E quanto questa ipersensibilità è associata al nostro personale livello di paura? Per rispondere a queste domande, ho effettuato online (in pieno rispetto delle regole del distanziamento sociale) un breve esperimento che valuta la capacità di riconoscere il volto dell’emozione della paura, alla quale hanno partecipato numerose persone durante la Fase 2. Negli ultimi anni, insieme al mio gruppo di ricerca, ho adottato questo compito per studiare tale capacità in alcune popolazione cliniche.

Come esseri umani, siamo profondamente sociali. Incontrare l’altro e il suo mondo emotivo attiva in noi sentimenti ed emozioni. Forse osservare il volto impaurito dell'altro e riconoscersi in quella medesima paura, in questo tempo, potrebbe averci fatto sentire più compresi e meno soli, e allo stesso tempo più empatici e accoglienti. Come dire, siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda emotiva.

We're fighting for a place we can call home
Looking for a way not to be alone
Not to be alone

(Fear, Leave out of the rest Demo - Linkin Park)

Questa storia di ricerca si trova in:


un racconto di
Federica Scarpina
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

12 ottobre 2020

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