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Processi sociali e politici, Legge e Comunicazione

(De)gendering bodies. Gli spot come spie del nostro sistema culturale

Fotogramma della campagna Nike Dream crazy

I media ci offrono, ogni giorno, modelli di uomini e donne con cui noi ci confrontiamo e attraverso cui interpretiamo il mondo. Prendendo come spunto due spot pubblicitari e filtrandoli attraverso la lente d’ingrandimento della semiotica, proverò a dire qualche parola sulla semiotica del gender.

Se il sesso è un dato biologico, il genere è una questione sociale e culturale. Ha a che fare con l’insieme delle aspettative che una società struttura intorno all’essere maschi o femmine. Nasci maschio? Allora “devi” giocare con pistole e macchinine e da grande “dovrai” fare, per esempio, l’ingegnere. Nasci femmina? Ti aspettano bambole e ferri da stiro.

I Gender Studies sono una sorta di sguardo “sensibile” che, attraverso le discipline, si interroga sull’identità di genere dei soggetti e sui loro ruoli. La semiotica, la disciplina entro cui si muove la mia ricerca, può offrire una chiave di lettura a queste dinamiche culturali perché studia il modo in cui assegniamo un significato condiviso alle esperienze, osservando i testi della cultura e le pratiche.

Analizzando serie tv, film, romanzi, opere d’arte e così via, da anni cerco di capire quali rappresentazioni del maschile e del femminile ci offrono i testi della cultura, come ci interfacciamo con esse trasformandole in modelli, e quale sia la risposta, in termini di strutture di potere e di immagine, sui ruoli di genere. Per farlo, qui, userò due recenti spot pubblicitari.

Il primo, della Gillette, dal titolo We believe: the best a man can be, mostra uomini che molestano le donne, ridono di scene sessiste, assumono atteggiamenti paternalistici o che soprassiedono di fronte a scene di violenza: Gillette ci dice che tutto questo è intollerabile e che è ora di cambiare, di trovare “il meglio di un uomo” (storico claim aziendale). È una sorta di “accusa” all’universo maschile che, per tradizione e cultura, assume dei comportamenti sbagliati. Sebbene il messaggio sia positivo, la gran parte degli intervistati (circa il 60%, tra uomini e donne) lo ha trovato ingiusto perché “un uomo deve fare l’uomo, non può ammorbidirsi come una signorina”. Inaspettatamente, nonostante ci fosse la percezione di un cambiamento dovuta anche all’onda del movimento #MeToo, virale dall'ottobre 2017, contro le molestie e la violenza sulle donne, questo stereotipo è risultato ancora saldo nell’immaginario collettivo. E il gradimento dello spot ne è stato la spia.

La campagna Nike Dream Crazy è invece un caso di marketing pubblicitario completamente diverso con una dislike ratio di appena l’11%. In effetti, invece di puntare il dito verso chi sbaglia come fa Gilette, Nike celebra chi ce la fa. Vengono messi in scena una serie di successi di alcune campionesse mondiali di varie discipline sportive, tra cui Serena Williams, regina indiscussa del tennis al femminile e già paladina di alcune rivendicazioni sociali sull’abbigliamento delle donne nello sport.
Lo spot ci dice che solo se si è folli abbastanza si può vincere e l’essere considerate pazze è un complimento. Eppure anche qui c’è qualcosa che non va: il messaggio implicito è “sei pazza perché non sarebbe questa la tua collocazione naturale”. Per un uomo fare sport e voler vincere è normale. Per una donna no. Ed è la conferma di questo stereotipo ad avere decretato il successo dello spot.

L’analisi semiotica di questi due spot, messa in relazione al loro gradimento, ci suggerisce che, a discapito di qualunque spinta verso la parità, nel sistema culturale contemporaneo c’è una resistenza molto forte verso un vero e proprio cambiamento di quei ruoli di genere. La strada verso un’effettiva equità è quindi ancora lunga e impervia, eppure io confido nel fatto che continuando a lavorare sui modelli culturali, prima o poi, qualcosa cambierà!


Questa storia di ricerca si trova in:


un racconto di
Federica Turco
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

15 ottobre 2020

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