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Nostalgici del gold standard tra parità di bilancio e crescita economica

Foto: Unsplash

Il gold standard, quel sistema monetario che permette di legare il valore della moneta corrente alle riserve auree statali, torna ricorsivamente di moda nelle politiche economiche di diversi paesi perché considerato sinonimo di sviluppo economico. Ma sarà davvero così?

Gli ultimi 15 anni, con i postumi della crisi bancaria-finanziaria del 2008 prima e gli effetti devastanti sulle economie della pandemia di COVID-19 poi, hanno richiamato l’attenzione sull’importanza di politiche fiscali espansive in fasi di crisi economica, con atteggiamenti tuttavia altalenanti da parte dei governi.

Brevemente, attuare una politica fiscale espansiva significa incrementare la spesa pubblica, perché questo comporta a sua volta un aumento della domanda di beni e servizi. Questo anche a costo di avere, alla fine, un bilancio statale negativo, in cui le uscite sono superiori alle entrate: il cosiddetto deficit spending. Ne sono un esempio i piani di incremento della spesa pubblica post 2008, che però furono ricorretti velocemente da successive politiche di austerity, ossia un regime di restrizione dei consumi privati e delle spese statali, per mantenere la parità di bilancio.

Nello scenario post-pandemico stiamo di nuovo assistendo a una momentanea vittoria della posizione espansionista. Insomma, finita ormai l’era di John Keynes, l’economista che poneva fiducia nella necessità dell’intervento dello Stato nell’economia, sembra che i governi (e, in Europa, soprattutto la Banca Centrale Europea) tendano a essere quantomeno ondivaghi nel loro rapporto con la spesa pubblica.

Un aspetto poco noto in cui si riflette simpatia e antipatia per il deficit spending è il ruolo dell’oro nella politica monetaria, un tema sul quale si sono concentrati i miei studi recenti. A prima vista sembrerebbe paradossale che, in anni di diffusione di strumenti finanziari talvolta incomprensibili tra dominio della moneta elettronica e ascesa delle criptovalute, ci si occupi ancora di oro. Effettivamente, già Keynes aveva espresso un sentimento simile, definendo l’oro una “reliquia barbarica”. Questo interesse per l’oro, tuttavia, non è in relazione al metallo in sé per sé quanto, piuttosto, il risultato di una specie di “santificazione” laica del sistema monetario che su esso si basava, il cosiddetto gold standard.

Il gold standard, detto anche sistema aureo, è stato un sistema monetario che permetteva di legare il valore della moneta corrente alle riserve auree statali. Il sistema si basava infatti sul perfetto ancoraggio delle valute in circolazione al loro contenuto di metallo prezioso o a una corrispettiva quantità unitaria di oro custodita nelle Banche Centrali. L’adozione del gold standard ha sempre richiesto ai governi di mantenere la spesa pubblica entro limiti molto stretti (fiscal austerity), per evitare di dover aumentare la massa monetaria e dunque andare incontro a inflazione.
Il sistema, diffusosi a partire dalle ultime decadi del diciannovesimo secolo e in auge fino allo scoppio della prima guerra mondiale, si sviluppò parallelamente a una fase di forte integrazione commerciale e finanziaria e di crescita economica al livello internazionale. Questo, in un atteggiamento quasi fideistico, creò l’idea che gold standard fosse sinonimo di sviluppo economico e che la sua adozione - legata all’implementazione di politiche fiscali restrittive - fosse la miracolosa soluzione a ogni periodo di crisi. Ma siamo sicuri che tra i due ci sia una relazione causale?

La prima tappa del processo di santificazione di questo sistema monetario si ha nel corso degli anni venti. Infatti, di fronte al grande aumento della spesa pubblica e poi dell’inflazione del periodo post-bellico, politici con connotazioni ideologiche molto distanti come Churchill e Mussolini decisero di fare ritorno al sistema aureo, visto un po' come la soluzione automatica a questi problemi. Il tentativo, tuttavia, naufragò con la crisi degli anni trenta.

In realtà, molti studiosi sono d’accordo nel vedere proprio il ritorno al gold standard come una delle principali cause della Grande Depressione che si trascinò fino all’inizio del secondo conflitto mondiale. Per gli amanti del sistema aureo, però, il problema degli anni trenta era che le condizioni economiche erano cambiate, non che il sistema di per sé non fosse valido.
Così, ancora oggi, a ogni ritorno di passione per la fiscal austerity (detta anche fiscal frugality), si scoprono e si riscoprono nuovi nostalgici di questo sistema monetario. Una delle più recenti fan si chiama Judy Shelton, consigliera economica di Donald Trump e (non) eletta per un soffio sul Board della Federal Reserve. Negli ultimi dieci anni però, il sistema del gold standard è stato sottoposto a dure critiche da una serie di studi, nel solco del quale si inseriscono quelli del sottoscritto, che sostengono che il suo funzionamento fosse dovuto per lo più a espedienti, adattamenti, interventi a correzione dei mercati e certamente non solo a politiche fiscali restrittive. Insomma, la storia del gold standard, in verità, sembra mettere in dubbio l’assioma secondo cui il mantenimento della parità di bilancio porti necessariamente a una crescita economica.

Allora, per citare l’economista premio Nobel Richard Thaler: “Perché leghiamo la moneta all’oro e non al Bordeaux del 1982?”.

un racconto di
Paolo Di Martino
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

19 dicembre 2022

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