Uno dei tanti interrogativi che gli esseri umani si pongono riguardo agli animali è se essi possano provare empatia come noi. Esiste, cioè, uno spettro di emotività che gli animali riescono a esprimere, condividere ed eventualmente comprendere?
Ne abbiamo parlato con il professor Norscia, antropologo di UniTo che si occupa anche di comportamento socio-emotivo dei primati non umani.
Intervista a cura di Stefano Alessandria, Davide Buglino, Ilaria Gigliotti, Clelia Gribaldo.
Spesso, osservando gli animali non umani e il loro modo di relazionarsi con noi e con i propri simili, tendiamo a mettere in evidenza quanto ci assomiglino, attribuendo loro comportamenti che appartengono al mondo umano: in pratica, guardiamo con occhi “umani” esseri che in realtà “umani” non sono. Nell’approfondire questo argomento, ci siamo resi conto che sarebbe stato più opportuno esaminare la questione partendo da una prospettiva meno antropocentrica, ossia cercando di analizzare quanto vi sia di “animale” in quei comportamenti sociali ed empatici che tendiamo, erroneamente, a categorizzare come prerogative esclusivamente umane.
Siamo due studentesse e due studenti frequentanti il primo anno di Scienze Biologiche e per chiarire i nostri dubbi in merito, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare il professor Ivan Norscia, antropologo dell’Università di Torino, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, da anni impegnato in progetti di ricerca che studiano il comportamento socio-emotivo dei primati non umani, partendo dai lemuri del Madagascar per arrivare alle scimmie antropomorfe.
Ecco cosa è emerso dal nostro incontro.
Qual è il significato di empatia? È presente nel mondo animale?
L’empatia è un concetto vastissimo e, nella sua dimensione più ampia e complessa, può essere riassunto nella capacità di provare quello che gli altri provano e comprendere le emozioni altrui. La prima componente è più automatica, mentre la seconda richiede capacità cognitive più complesse. La definizione che include entrambe le componenti è applicabile agli esseri umani, per i quali gli elementi di ‘comprensione’ sono più chiari. Nel caso degli animali non umani sarà necessario fare riferimento a quella parte di letteratura che si occupa innanzitutto dei fenomeni che viaggiano su un canale automatico, implicito. Sarà quindi necessario mettere da parte la prospettiva top-down che colloca gli umani al vertice e li usa come termine di paragone (e che porterebbe domande come: “gli animali non umani hanno la stessa forma di empatia degli umani?), e adottare un approccio bottom-up, che in un’ottica comparativo-evolutiva si domanda quali siano i tasselli costitutivi di tali capacità e qual è la forma attraverso cui, eventualmente, le esprimono.
Cosa emerge dunque dalla letteratura a cui occorre fare riferimento?
Tra le varie definizioni di empatia troviamo quella cosiddetta della matrioska di De Waal e Preston secondo cui ciascun guscio della famosa bambola russa rappresenta livelli di empatia sempre più complessi, che richiedono crescenti capacità di distinzione tra sé e l’altro, e la cui presenza dipende dalla complessità cognitiva della specie animale in questione. Al primo livello troviamo il contagio emotivo in base al quale avverrebbe un trasferimento emotivo da un individuo all’altro, senza che questo sia necessariamente compreso, poiché si verifica a livello implicito, non cosciente. Con il concetto di empathic concern, il livello di complessità aumenta e si traduce in veri e propri atteggiamenti consolatori di un individuo nei confronti di un altro, e questo richiede un grande controllo sulle proprie emozioni. Infine, il terzo guscio della matrioska presente principalmente negli animali sociali, consiste nell’empatia cognitiva, la capacità di immedesimarsi e comprendere le necessità dell’altro mantenendo un distacco, cioè, riconoscendo sempre il self dal non-self.
La definizione di Jean Decety considera, invece, l’empatia non come un fenomeno multilivello, ma come un processo induttivo che richiede la basilare capacità di distinguere tra le emozioni autogenerate da quelle altrui.
Queste due visioni (tra le tante presenti in letteratura), anche se molto diverse tra loro, sono di fondamentale importanza, poiché permettono di “slegare” l’empatia dalla presenza di capacità cognitive avanzate, aprendo quindi la strada allo studio dell’evoluzione dell’empatia partendo dagli animali non umani.
Ci sembra dunque di capire che empatia e istinto siano legati tra loro… è davvero così? Se sì in che modo?
Più che di “istinto” dovremmo parlare di “sfera automatica” attraverso cui si può avere il trasferimento di un’emozione da un individuo all’altro. Questo trasferimento, noto appunto come “contagio emotivo”, può avvenire attraverso le espressioni facciali e altre azioni che convogliano stati emotivi (come dolore e felicità) e che possono essere “replicati” da altri individui che stanno osservando chi sta provando in prima linea quelle emozioni. In questo caso si può parlare, ad esempio, di “mimica”, se la replica avviene entro un secondo o pochi secondi. Questa non è l’unica modalità, ma una di quelle che la letteratura suggerisce essere legata al contagio emotivo, una possibile forma base di empatia.
Come si fa a comprendere se due individui sono emotivamente legati?
In etologia la vicinanza emotiva si può evincere ad esempio dalla vicinanza sociale, data da quanto due individui trascorrono tempo insieme, magari seduti vicini o in contatto, a parlare o, nei primati non umani, a ‘spulciarsi’ reciprocamente (comportamento denominato grooming). È importante notare che, dal punto di vista scientifico, occorre poter registrare fenomeni che siano osservabili e oggettivamente misurabili.
C’è differenza tra l’empatia degli umani e degli animali non umani?
A oggi non sappiamo quali specie di animali (e in particolare mammiferi) sociali presentino capacità che si possano ricondurre all’empatia, perché non è facile elaborare protocolli scientifici per investigare il fenomeno e perché questo campo di ricerca è ancora poco esplorato. Negli animali non umani, che non rispondono a questionari o interviste e che non esprimono emozioni attraverso un linguaggio articolato, la ricerca per il momento lavora molto sulla sfera automatica dell’empatia, per esempio verificando se è presente, tra gli individui di un gruppo sociale, il contagio di certi comportamenti o espressioni a valenza presumibilmente positiva o negativa (come il gioco o l’aggressione, la risata o l’espressione facciale della paura). Un altro aspetto che viene investigato è se è presente la consolazione, cioè se individui non coinvolti in un conflitto si avvicinano alla vittima e, attraverso un contatto affiliativo (o ‘amichevole’) ne riducono l’ansia o lo stress. La capacità di consolare richiede capacità cognitive più complesse del semplice contagio emotivo.
Oltre ai fenomeni automatici a cui faceva riferimento prima, quali altri fattori regolano l’empatia?
Lo studio di fenomeni ‘automatici’ rimanda all’ambito biologico, non necessariamente appreso, dell’empatia. Tuttavia, non possiamo escludere elementi di apprendimento sociale e occorrerà, nel futuro, investigare come, durante la crescita, gli individui possono modulare o modificare il proprio comportamento a possibile base empatica a seconda degli stimoli sociali a cui sono esposti (ad esempio, il tipo di interazioni con la madre e con gli altri componenti del gruppo).
Come si struttura un esperimento che possa verificare l’effettiva relazione tra mimica e contagio emotivo (forma base di empatia)?
Non è semplice condurre studi “controllati” in condizioni naturali o naturalistiche, perché dobbiamo sempre rispettare l’approccio scientifico e disegnare protocolli che tengano conto di variabili che potrebbero interferire con il rilevamento dei dati e portare a conclusioni non corrette. Per quanto riguarda la mimica delle espressioni facciali, ad esempio, occorre chiedersi se è presente nella specie di cui ci occupiamo. Per verificarlo è necessario dimostrare - con un approccio statistico quantitativo - che è più probabile che l’individuo “A” replichi l’espressione facciale dell’individuo “B” quando la può percepire rispetto a quando non la può percepire (condizione di controllo). Una volta poste queste condizioni, se osserviamo che la mimica si manifesta maggiormente tra individui più legati socialmente, oppure prolunga certe interazioni sociali, allora possiamo ipotizzare che non si tratti semplicemente di un fenomeno motorio, ma che dietro ci sia il trasferimento e la condivisione di stati emotivi, propri dell’empatia emotiva.
Giunti al termine dell’incontro con il prof. Norscia molti dei nostri dubbi sono stati risolti, ma molti altri ne sono sorti, ad esempio si può parlare di empatia tra specie diverse? La capacità di provare emozioni ed empatia nelle scimmie antropomorfe indica che le loro azioni possano essere mosse da una sorta di moralità?
Di una cosa però siamo certi, questo ambito di ricerca si è rivelato essere incredibilmente fecondo e ancora in gran parte ancora da esplorare.
Ringraziamo il professor Norscia per la sua disponibilità.