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Patologia vegetale, che passione!

foto: Manuela Gomez

Le ragioni che mi hanno portato a scegliere il mestiere di fitopatologo e di occuparmi di malattie delle piante. Una storia personale, una vera e propria ricombinazione genetica che mescolando i geni di famiglia, mi ha portato a occuparmi di ricerca in patologia vegetale. E, dopo più di quarant’anni di ricerca, niente è più emozionante che festeggiare l’anno internazionale sulla salute delle piante. 

“Un fitopatologo? Non ne avevo mai incontrato uno prima!” Ebbene sì, sono un fitopatologo! All’inizio, a chi mi chiedeva quale fosse il mio mestiere, rispondevo con un generico “Sono un ricercatore”. Poi ho incominciato a specificare il mio ambito di ricerca, le malattie delle piante, e ho scoperto quanto affascinasse l’interlocutore incontrare un fitopatologo. Eppure siamo in migliaia sparsi per il mondo: oltre 50mila operano sotto l’egida della International Society for Plant Pathology (Società Internazionale di Patologia vegetale, ISPP) che ho avuto l’onore di presiedere dal 2008 al 2013. Noi siamo, orgogliosamente, i medici delle piante.

Perché ho scelto questo mestiere? In realtà è questo mestiere che ha scelto me. Sono figlia di imprenditori agricoli e, fino al periodo dell’Università, ho trascorso le estati in una delle aziende di famiglia. Mio padre, frutticoltore innovativo, profondo conoscitore della biologia e dell’epidemiologia dei parassiti, dei meccanismi di azione degli agrofarmaci, dei loro pregi e difetti, mi ha trasmesso la passione per l’agricoltura. Un’agricoltura attenta all’ambiente, produttiva e tesa a introdurre tutte le innovazioni tecnologiche, sfruttandole al meglio. Un’agricoltura sensibile alla salute dei consumatori e degli operatori. Nei pensierini della seconda elementare già citavo gli agrofarmaci (il DDT, per la precisione) di cui conoscevo, già allora, i meccanismi attraverso i quali agivano nei confronti dei patogeni.

Dei principali patogeni delle colture da frutto ho imparato quasi tutto molto presto: mio padre, che mi mostrava i sintomi sulle foglie e sui frutti, mi descriveva le condizioni ambientali che ne favorivano lo sviluppo, spiegandomi le strategie di difesa che avrebbe adottato. Al tempo stesso ricordo con nostalgia le lunghe chiacchierate con zio Piero, ricercatore ai massimi livelli nell’ambito del cancro al seno a Bethesda (Maryland, Usa). Molto severo e apparentemente freddo, nei suoi periodi estivi a Saluzzo questo zio dedicava a me, marmocchia curiosa, molto tempo: mi incantava raccontandomi la bellezza e i segreti della ricerca, infondendomi curiosità e passione per un mondo sconosciuto che anno dopo anno, mi sembrava sempre più accessibile.

A cinque anni senza ancora sapere né leggere né scrivere, ero già abbonata alla versione inglese del National Geographic Society (“comincia a guardare le foto”, disse zio Piero), sentivo parlare di cose più grandi di me, di ricerca e della sua valutazione, di impact factor. Così, sognando l’America e desiderosa di spingermi oltre le foto del National Geographic, accolsi con grande entusiasmo la proposta di mio padre di studiare seriamente l’inglese fin dalla seconda elementare, accogliendo a casa per più di un anno Miss Sue Chapman: grazie alla sua grande pazienza, senza alcuna fatica, ho imparato e amato questa lingua, che si rivelò, più tardi, un formidabile strumento di lavoro.

Una volta all’Università, anche se il mio sogno di bambina era fare il ricercatore come lo zio, l’imprinting paterno ha prevalso e la passione per la Botanica, insieme ad alcuni incontri fortunati, mi hanno indirizzata verso la patologia vegetale. Avere capito fin da bambina quanto gravi potessero essere i danni derivanti dagli attacchi dei parassiti delle piante e quanta fosse la fatica e, al tempo stesso, la passione degli agricoltori per il loro lavoro mi ha stimolato a impegnarmi in una attività di ricerca tesa a fornire qualche soluzione pratica; e nei miei numerosissimi viaggi in ogni parte del mondo sono sempre le campagne e le “cascine” ad attrarmi.

Oggi, dopo più di quarant’anni anni di ricerca, conservo intatta la passione dei primi giorni per questo lavoro e non potrei neppure immaginare per me una professione diversa. Una professione con profonde implicazioni sociali: le malattie delle piante hanno causato in passato - e continuano a farlo - gravi conseguenze, che in alcuni casi hanno segnato la storia di interi Paesi: come la peronospora della patata per gli irlandesi nel 1800. A distanza di 160 anni, nonostante gli enormi traguardi raggiunti nel campo della biologia vegetale, le malattie delle piante possono ancora causare danni economici enormi nei paesi industrializzati, fame, carestie, povertà in quelli in via di sviluppo. Le malattie possono interessare anche piante ornamentali e forestali, ove il danno può essere estetico, portando, talvolta a profonde modificazioni del paesaggio. Per non trascurare la pericolosa caduta di alberi in spazi pubblici, con danni a cose e/o persone. Alcuni patogeni, poi, per la loro natura o per il modo in cui arrivano a colpire le nostre coltivazioni, possono generare ansia e paura.

L’importanza e la contemporaneità della patologia vegetale e del mestiere di fitopatologo sono quindi evidenti giustificando la scelta di migliaia di persone di dedicare tempo e risorse alla salute delle piante. Perché le piante producono buona parte del cibo che consumiamo, che vogliamo sano e sicuro e perché le piante abbelliscono il mondo che ci circonda. E perché il fitopatologo è una persona realizzata, che sa di svolgere un mestiere tanto umile quanto utile.


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Questa storia di ricerca si trova in:


un racconto di
Maria Lodovica Gullino
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

03 luglio 2020

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