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Da Micheal Crichton a Margaret Atwood, la crisi climatica tra distopia e azione

Dettaglio della copertina del libro MaddAddam di Margaret Atwood, edizione Robert Laffont, 2014.

Le sfide imposte dai cambiamenti climatici hanno finalmente catturato l’attenzione dei media, inaugurando un intenso dibattito sulla complessa relazione esistente tra copertura mediatica, strategie linguistiche e narrative adottate, percezione e reAzioni del pubblico. Ma qual è il ruolo della letteratura e delle arti in questo dibattito?

Con un certo ritardo rispetto ad altri ambiti, anche la letteratura e le arti hanno accolto la sfida del cambiamento climatico generando un profluvio di risposte diversificate. Nell’ambito della letteratura, la Cli-Fi o Climate Change Fiction, è probabilmente la forma più diffusa che trova nel romanzo il modello ideale. Deve il suo nome al blogger e attivista Dan Bloom, che nel 2007 coniò il termine sfruttando l’assonanza con la Sci-Fi: è infatti nella fantascienza che pone le sue radici (in Italia la si definisce anche “fantaecologia”) per poi dissociarsene rapidamente pur rimanendo un suo sottogenere. Comprende tutte quelle opere di fantasia che, partendo da eventi reali o verisimili, si concentrano sulle complessità del cambiamento climatico qui inteso come ampio fenomeno culturale. Le prime prove attingono a generi vari e consolidati - la distopia, il fantasy, il thriller - e sono quasi sempre ambientate in un mondo post-apocalittico. Tra i romanzi più significativi di questo primo gruppo occorre ricordare Stato di paura (2004) di Michael Crichton, Solar (2010) di Ian McEwan, Le stelle del cane (2012) di Peter Heller, Odds Against Tomorrow (2013) di Nathaniel Rich.

Alcuni studiosi, tuttavia, hanno criticato questa produzione proprio per la prossimità al genere fantascientifico, per la diffusione di inesattezze scientifiche e per la predominanza di elementi distopici che allontanano nel tempo, piuttosto che avvicinare, il momento dell’azione individuale e collettiva. Se la Cli-Fi ha spesso ricevuto più consensi della scienza, non è soltanto per la sua capacità di offrire una visualizzazione più immediata dei fenomeni ambientali traducendo il gergo scientifico in emozioni, ma soprattutto per il suo imperativo morale: contribuire alla presa di coscienza dei lettori, invitarli a riconsiderare il ruolo dell’umano all’interno della crisi ecologica e promuovere un impegno civile. Ne consegue che l’ambiente non costituisce più un semplice sfondo per le storie narrate, bensì influisce sulla trama e sui personaggi, generando traiettorie narrative del tutto nuove. Di qui l’esigenza di proporre la denominazione “Eco-fiction” per designare una seconda (e forse più ampia) produzione artistica e letteraria che mostra maggiore aderenza al reale. Fra i numerosi esempi: La collina delle farfalle (2012) di Barbara Kingsolver, L’ultima profezia (2007) di Liz Jensen e la trilogia di Margaret Atwood (L’ultimo degli uomini, L’anno del diluvio e MaddAddam).

Flight Behavior (2012), il romanzo di Barbara Kingsolver pubblicato in Italia con il titolo La collina delle farfalle (2013), è particolarmente convincente. Il libro, del tutto scevro di implicazioni apocalittiche e/o distopiche, narra le storie di personaggi la cui semplice vita in un piccolo borgo rurale degli Appalachi è sconvolta da un’insolita migrazione di farfalle monarca. L’incontro di due specie in lotta per la sopravvivenza - gli insetti disorientati dai cambiamenti del clima e a rischio di estinzione e una giovane donna in fuga da un’esistenza insoddisfacente - dimostra così l’equivalenza della condizione dell’umano e del non umano già evocata nel titolo originale.

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