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Pinna nobilis, l’inarrestabile declino di un simbolo mediterraneo

Pinna Nobilis, il bivalve più grande del Mediterraneo. Foto: Getty Images

Per la nobile pinna, il mollusco bivalve più grande del Mediterraneo, questi ultimi anni sono stati un viaggio senza ritorno verso l’estinzione. Nella speciale graduatoria delle specie minacciate stilata dalla IUCN, questo organismo simbolo dei nostri mari è retrocesso da vulnerabile a gravemente minacciato. Cosa resta da fare per un ultimo, disperato salvataggio?

Se chiedessimo alle biologhe e ai biologi marini che lavorano nel Mar Mediterraneo di indicarci quali organismi ne rappresentano al meglio la biodiversità e la ricchezza, siamo sicuri che le loro risposte convergerebbero verso tre organismi, due animali invertebrati e un vegetale: tre specie endemiche, esclusive e perciò simbolo dell’unicità e della fragilità dell’area marina temperata più estesa della Terra.

I tre endemismi mediterranei sono il Corallium rubrum, uno cnidario ottocorallo, specie protetta dal 1992 (Direttiva Habitat), dalla cui lavorazione nascono preziosi gioielli e monili, Posidonia oceanica, anch’essa protetta, pianta superiore in grado di costituire estese praterie sottomarine, alimentando un ecosistema di estrema ricchezza e diversità biologica e, infine, il mollusco bivalve Pinna nobilis, conosciuto fin dall’antichità per la preziosa barba grezza, il bisso, un intreccio di filamenti proteici che lo fissano al substrato e che mani esperte e tradizioni millenarie tramandate oralmente trasformavano in una chioma di sirena bionda come l’oro, un tessuto tra i più preziosi e desiderati. Oggi anche Pinna nobilis è una specie protetta.

Per il bivalve più grande del Mediterraneo, che può raggiungere 120 cm in altezza e 35 cm in larghezza - secondo al mondo solo alla maestosa Tridacna gigas - questi ultimi anni, a partire dal 2016, sono stati un viaggio senza ritorno verso l’estinzione. La IUCN - Unione internazionale per la conservazione della natura, nella sua speciale graduatoria delle specie minacciate, si è affrettata a retrocedere la nobile pinna da "vulnerabile" a "gravemente minacciata".

Il nostro gruppo di biologia marina ha partecipato negli anni a numerose campagne di monitoraggio alla ricerca di esemplari ancora in vita, dalle acque delle coste calabre ioniche e tirreniche, all’arcipelago toscano, nella preziosa area di tutela biologica dello Scoglietto, all’Elba, la prima ad essere istituita in Italia, nel lontano 1971.
La speranza era quella di individuare organismi vivi e poterne prelevare i tessuti per cercare di capire che cosa stesse succedendo al grande bivalve. Durante le immersioni subacquee però lo scenario desolante ci ha permesso solo di misurare e filmare esemplari senza vita. Tra la rigogliosa prateria di posidonia intravedevamo le enormi valve delle pinne, esemplari morti ancora conficcati nel fondale sabbioso nella loro posizione naturale, più spesso inclinate su un lato come lapidi sconnesse di certi cimiteri ebraici. Alcune ospitavano una nuova vita: soprattutto murene che, al sicuro tra le inespugnabili pareti carbonatiche del grande mollusco, spalancavano la bocca fuori dal bivalve ogni volta che la nostra mano si avvicinava per le misurazioni, quasi a rivendicare il possesso esclusivo di un nuovo e inatteso rifugio.

Ma che cosa è successo a Pinna nobilis?

Colleghi spagnoli ci hanno dato la risposta. Il killer di pinna è una nuova specie di protozoo parassita mai descritta prima, si chiama Haplosporidium pinnae ed è specie-specifico, ovvero è in grado di parassitare e proliferare solo in Pinna nobilis. Responsabile di una forte infezione nei tubuli della ghiandola digestiva dell’ospite, Haplosporidium pinnae interferisce con l’assorbimento del cibo. Il parassita prima conduce la pinna alla fame e poi, in un secondo momento, produce una disfunzione generale con esito fatale.

Siamo quindi riusciti a scoprire l’esecutore materiale di questa strage e non è stato troppo difficile intuirne il mandante. Il primo indiziato è il riscaldamento medio delle acque superficiali mediterranee. Un mare che ormai si riscalda con un ritmo di 0,4°C ogni dieci anni e sempre più frequentemente registra fenomeni di heat waves (ondate di calore) rappresenta per Pinna nobilis un ambiente ostile, uno stress eccessivo che indebolisce l’organismo e lo espone alle infezioni, come nel caso di Haplosporidium.

Questi sono segnali evidenti di una trasformazione che nel futuro prossimo potrebbe ridisegnare molti scenari naturali nei quali vivono gli organismi marini mediterranei. In un mare che si sta tropicalizzando, eventi di mortalità di massa come quello di Pinna nobilis possono non rappresentare più casi isolati.

La ricerca scientifica non si arrende, ma oggi più che mai necessita del contributo di ciascuno di noi. In rete con altri istituti abbiamo cercato di promuovere progetti di citizen science per coinvolgere tutti coloro che “vanno per mare” alla ricerca di esemplari di Pinna ancora viventi, così che dal loro studio possano emergere strategie di conservazione che consentano un insperato salvataggio. “Sharing is caring” è il nostro motto.

Forse il destino di Pinna nobilis è segnato per sempre e l’unica strada percorribile è quella di mantenerla in vita in qualche acquario, all’interno di parametri ambientali rigorosamente monitorati. Ma la lezione è chiara: le estinzioni in ambiente marino sono difficili da intercettare nelle loro fasi precoci, soprattutto quando sono a carico di animali invertebrati.
Spesso il processo è sottovalutato a causa del basso potere di rilevamento rispetto all’ambiente terrestre, basti pensare che tra l’ultima segnalazione di un organismo e la sua dichiarazione di estinzione trascorrono in media 53 anni!

Ecco perché diviene essenziale il coinvolgimento responsabile e consapevole di tutti, perché Pinna nobilis rimanga per sempre un’icona del Mediterraneo, il mare in mezzo alle terre, con le sue unicità e i suoi endemismi.

Per approfondire:
Nicola Nurra, Plasticene. L'epoca che riscrive la nostra storia sulla Terra, 2022, Il Saggiatore.


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