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Malattie e prevenzione

Cos'è l'ago sciogli-tumore? Facciamo chiarezza tra progressi terapeutici e nuove sfide

Foto: Amirali Mirhashemian / Unsplash

Più volte i media hanno comunicato con titoli sensazionalistici e informazioni non sempre esatte la presenza di un ago dalle proprietà quasi taumaturgiche in grado di sciogliere i tumori. Ma in cosa consiste esattamente la termoablazione percutanea e quali sono le ricerche in questo campo? Quali le sfide per diagnosi oncologiche sempre più personalizzate?
Lo abbiamo chiesto ad Andrea Veltri, Marco Calandri e Federica Fumarola, medici radiologi del dipartimento di Oncologia.

Professor Veltri, come nasce l’idea di “sciogliere” un tumore dall'interno raggiungendolo con un ago?
Definito a volte in modo un po’ impreciso come l'ago "sciogli tumore", e descritto in termini estremamente innovativi e talvolta miracolistici, questo approccio in realtà esiste da tempo ed è validato per alcuni tipi specifici di tumori. Infatti l’idea di poter trattare delle lesioni epatiche senza ricorrere alla chirurgia è stata proposta oltre 30 anni fa da un medico radiologo italiano, Tito Livraghi, autore nel 1986 di uno studio in cui pochi pazienti affetti da epatocarcinoma (un tumore primitivo del fegato) venivano trattati inserendo un sottile ago attraverso la cute direttamente a livello del fegato in grado di iniettare all'interno del nodulo dell'alcol capace di distruggere le cellule tumorali. Da quella idea pionieristica sono cambiate moltissime cose. L'iniezione di alcool è stata quasi del tutto abbandonata a favore di aghi dotati di una punta che scalda il tumore a una temperatura tra i 65°C e i 100°C in grado di indurre alla morte le cellule tumorali, tramite un processo chiamato necrosi coagulativa.

Come si fa però a essere sicuri di aver davvero raggiunto il bersaglio?
È qui che entra in gioco la radiologia: grazie alla guida fornita dalle immagini radiologiche, in particolare l'ecografia e la tomografia computerizzata (TC), riusciamo facilmente a raggiungere la zona di interesse. Questo è il motivo per cui i medici che più spesso eseguono questi trattamenti sono medici radiologi che, nello specifico, prendono il nome di "radiologi interventisti”. Queste tecniche ovviamente hanno delle indicazioni specifiche e chiare che devono essere condivise dai molti specialisti che formano il tumor board (o, in italiano, il GIC, gruppo interdisciplinare cure): ormai in tutti i centri oncologici i diversi specialisti mettono in campo la loro competenza in una riunione settimanale per migliorare la qualità e l'appropriatezza delle cure per ciascun paziente.

Quali sono i tumori che meglio si prestano a questo tipo di terapia?
A oggi sono due i principali campi di applicazioni di questi aghi: il tumore primitivo del fegato e le metastasi polmonari ed epatiche, in primis del carcinoma del colon retto (CRC). Proprio quest'ultimo tumore, il terzo più comune al mondo, responsabile di almeno 900mila morti all'anno, fa parte dell’ambito specifico della nostra ricerca. Il 25-30% dei pazienti si presenta alla diagnosi già con malattia metastatica e quasi il 50% dei pazienti con CRC purtroppo svilupperà metastasi nel corso della vita; l’organo principalmente coinvolto è il fegato e le metastasi epatiche costituiscono la principale causa di morte in oltre il 50% dei pazienti. Solo il 20% circa di questi è candidabile alla chirurgia delle metastasi epatiche, che rappresenta attualmente il gold-standard del trattamento, con una sopravvivenza a 5 anni dal 31 al 58%. Nei restanti pazienti le linee guida della European Society for Medical Oncology (ESMO) prevedono l’utilizzo della chemioterapia e/o della terapia ablativa locale da sola o in combinazione con l’intervento chirurgico. Ed ecco quindi le nostre procedure termoablative per le metastasi da tumore del colon retto: i trattamenti ablativi più usati e diffusi sono quelli con radiofrequenza (RFA) e con microonda (MWA).

Dottor Calandri, ci può dire qualcosa in più su queste tecniche?
Entrambe provocano la morte del tessuto tumorale utilizzando energia termica. La RFA sfrutta un circuito con corrente alternata che permette di far confluire l’energia termica in un ago che viene posizionato all'interno della lesione target, raggiungendo temperature comprese tra i 60 e i 100°. La MWA utilizza onde elettromagnetiche comprese tra i 900 MHz e i 2,4 GHz che attraverso un’antenna vengono trasmesse al tessuto tumorale, con conseguente oscillazione e frizione delle molecole d’acqua e surriscaldamento.
L’obiettivo principale delle terapie termoablative è il controllo locale della malattia: la persistenza di tessuto vitale o lo sviluppo di recidiva locale (in gergo “progressione tumorale locale”, LTP), è da considerarsi un fallimento del trattamento che purtroppo è ancora relativamente alto, variando tra l’8,8% e il 34%.

Da cosa dipendono questi fallimenti?
Diversi fattori hanno dimostrato di avere una correlazione con il tasso di progressione locale di malattia dopo il trattamento del nostro ago “sciogli-tumore”: uno dei principali è costituito dai margini di ablazione che, secondo la letteratura, sono adeguati se superiori a 5 mm, ottimali se di almeno 10 mm. Ma per alcuni tumori questi margini potrebbero non essere sufficienti: è il caso di tumori che presentano la mutazione del gene RAS (rat sarcoma viral oncogene) peraltro studiata in ambito molecolare anche dalla collega Serena Marchiò (ndr).
Dagli studi che abbiamo a disposizione emerge che pazienti con questi tumori possono beneficiare di margini di ablazione più ampi, che altrimenti si tendono a contenere per limitare il danno arrecato ai tessuti sani adiacenti al nodulo. Appare evidente quindi l’importanza di individuare precocemente la presenza di fattori che potrebbero influenzare negativamente l’efficacia del trattamento per poter agire di conseguenza. Proprio su questo si focalizza la ricerca in questo campo.

Uno dei principali campi di ricerca e di applicazione clinica della radiologia è la diagnostica, che assume un ruolo importante nella personalizzazione delle cure. Dottoressa Fumarola, quali sono le nuove sfide in questo campo?
Nella diagnostica oncologica un campo d’interesse emergente è quello della radiomica, un approccio di ricerca recente dove intelligenza artificiale e medicina si incontrano per personalizzare sempre più il trattamento sul paziente. Più nel dettaglio la radiomica può essere definita come lo studio della correlazione tra caratteristiche quantitative dell’immagine diagnostica (TC, RM, PET-TC), come le disomogeneità di scale di grigi spesso non percepibili dall'occhio umano, e fattori clinici prognostici e predittivi di malattia. Prevede l’estrazione di un elevato numero di dati relativi a caratteristiche quantitative dell’immagine (features) e quindi un’analisi dettagliata dei pixel (o meglio voxel, trattandosi di un volume) in grado, grazie anche all'uso dell’intelligenza artificiale, di fornire informazioni che non sarebbero apprezzabili a occhio nudo.
I modelli basati sull’analisi radiomica in futuro potrebbero permetterci di selezionare, in maniera non invasiva, quali pazienti possano maggiormente beneficiare della terapia ablativa, di individuare precocemente le lesioni a maggior rischio di sviluppare una progressione tumorale locale di malattia e di indirizzare il radiologo nella pianificazione del trattamento, ricercando un margine di ablazione più o meno ampio in base alle caratteristiche della lesione.
Questi strumenti potrebbero consentire un approccio personalizzato al paziente che tenga conto della complessità di variabili che possono condizionare l’andamento della malattia e la risposta alla terapia.

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Intervista a

Andrea Veltri
Marco Calandri
Federica Fumarola
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

A cura di

Redazione FRidA
Pubblicato il

16 settembre 2020

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