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Cercando acqua e vita su Marte. Perseverance e il futuro delle esplorazioni spaziali

Foto: David von Diemar / Unsplash

A metà febbraio, dopo un viaggio di 203 giorni, è arrivato su Marte Perseverance, l’ultimo rover lanciato dalla NASA per studiare il pianeta e cercare tracce di vita che, almeno per come la conosciamo noi, fa rima con “acqua”. Cosa possiamo aspettarci da missioni spaziali come questa? Che ripercussioni potranno avere? Lo abbiamo chiesto a Massimo Emilio Maffei, del dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, e a Simona Ferrando, del Dipartimento di Scienze della Terra.*

Uno degli obiettivi della missione Perseverance è cercare tracce di vita passata o presente su Marte. Ma come si cerca la vita su un altro pianeta?
Massimo Emilio Maffei: Occorre innanzitutto distinguere la vita come tale da quella intelligente. In oltre 50 anni di esplorazione del nostro sistema solare non abbiamo mai avuto contatti con altre forme di vita intelligente e pertanto possiamo escludere che ci sia. Un altro discorso invece è cercare la vita intesa come “forme di vita”. Cerchiamo qualsiasi segno di presenza di un organismo vivente, in grado cioè di compiere processi biochimici, metabolici e di trasformazione della materia proprio come avviene tutti i giorni sul nostro pianeta. Organismi unicellulari (come quelli che hanno dato il via all’evoluzione della vita sulla Terra) potrebbero essere presenti in profondità nella crosta marziana o sotto le coltri di ghiaccio delle lune di Giove. Un batterio o un virus sono forme molto semplici di vita che possono sopportare pressioni ambientali notevoli come radiazioni e temperature elevate o glaciali ma necessitano di acqua liquida, come tutte le forme di vita sul nostro pianeta. Pertanto la ricerca dell’acqua è alla base degli studi per cercare la vita, così come noi la conosciamo.

Perseverance è stato mandato in un cratere di quasi 50 chilometri chiamato Jezero, che significa “lago” in diverse lingue slave. Le osservazioni condotte con le sonde in orbita intorno a Marte ci fanno pensare che Jezero un tempo ospitasse un fiume, che sfociava in un lago. Come facciamo a studiare la presenza di acqua liquida su un altro pianeta roccioso?
Simona Ferrando: La ricerca dell’acqua su Marte segue diverse strade: guardando l’aspetto morfologico, in analogia a quanto succede sulla Terra, si può ipotizzare che in alcune zone, come Jezero, ci potessero essere fiumi e laghi. Possiamo studiare meteoriti marziani arrivati sulla Terra, che hanno il vantaggio di essere analizzabili nei nostri laboratori, ma lo svantaggio di essere pochi, piccoli e campionati a caso, magari in zone non promettenti per questo tipo di studio. Abbiamo poi le immagini e le analisi chimiche di campioni di rocce fatte a bordo degli altri rover mandati sul pianeta, come Opportunity o Curiosity. Infine altri dati interessanti ci arrivano analizzando l’atmosfera con le sonde in orbita attorno a Marte: in questo modo per esempio abbiamo scoperto la presenza di metano che può essere stato prodotto o da processi organici (quindi da forme di vita), o da processi geologici che prevedono la presenza di acqua (processo di serpentinizzazione).
Tutte queste informazioni ci permettono di fare ipotesi grazie al confronto con quello che sappiamo sulle rocce terrestri. L’unico metodo che dà informazioni dirette sulla presenza di fluidi come l’acqua in bacini superficiali, oppure all’interno della crosta, è lo studio delle inclusioni fluide - microcavità presenti nei minerali in cui vengono intrappolati dei fluidi mentre il minerale cresce. Un tipo di rocce interessanti in questo senso sono quelle sedimentarie definite “evaporitiche” (per esempio le rocce fatte di gesso o di sale), che sono state trovate anche su Marte, e che sulla Terra derivano da evaporazione di bacini marini o lacustri. Analizzando inclusioni fluide in cristalli di sale prelevati nella Death Valley, per esempio, sono stati trovati intrappolati microrganismi ancora in vita da 150.000 anni. Un’altra tipologia di rocce presenti su Marte sono i basalti, che si formano con la solidificazione di lava di alcuni vulcani (come il nostro Etna). Sulla Terra si trovano inclusioni fluide anche nei basalti, e lo stesso potrebbe avvenire in quelli marziani.

Nel racconto Gocce di memoria ci ha spiegato proprio come lo studio delle inclusioni fluide possa darci informazioni sull’evoluzione passata e futura del nostro Pianeta. Ci può fare qualche esempio di sue ricerche che abbiano possibili ricadute anche sullo studio di altri pianeti rocciosi?
SF: le inclusioni fluide sono una tecnica analitica di nicchia, ma con moltissime potenzialità. Nel 2021 è iniziato il progetto europeo FluidNET, di cui il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino è partner, con il quale andremo a studiare il percorso dell’acqua nella crosta terrestre per capire quale sia il ciclo dell’acqua e dei fluidi profondi. Le conoscenze su questi processi, che avvengono in tutti i pianeti solidi e coinvolgono acqua, gas o idrocarburi, possono essere trasportate dalla Terra a Marte, e ci darebbero importanti informazioni per sapere dove andare a cercare l’acqua e le tracce di vita.
Più in generale, con le persone con cui collaboro abbiamo studiato, sulla Terra, diversi processi in cui è coinvolta l’acqua liquida e che potrebbero avere analoghi su Marte, come i processi di serpentinizzazione e le rocce da precipitazione di acque saline. In questo ambito, per esempio, abbiamo analizzato porzioni con gesso e sali nel Mediterraneo, formate durante un momento di evaporazione del bacino. Lì abbiamo trovato intrappolati sia fluidi, meno salini di quanto si potesse ipotizzare, sia fossili di microrganismi. Magari tra qualche anno, quando le prossime missioni spaziali porteranno indietro i campioni prelevati da Perseverance, riusciremo ad analizzarli e a trovare fluidi e microrganismi viventi.

Professor Maffei, nelle sue ricerche si occupa anche di temi collegati all’esplorazione spaziale. Quali, nello specifico?
MEM: Sono un fisiologo vegetale e mi occupo del ruolo del campo geomagnetico sullo sviluppo e accrescimento delle piante e sul comportamento di alcuni insetti. Il nostro pianeta si difende dalle radiazioni cosmiche letali tramite un campo magnetico (campo geomagnetico) presente da prima che la vita si sviluppasse, e che quindi ogni organismo vivente terrestre non ha potuto evitare. Negli ultimi 10 anni il mio gruppo di ricerca ha prodotto una serie di dati sperimentali che dimostrano come le piante non ne possano fare a meno e che ogni variazione del campo geomagnetico viene percepita come un fattore di stress. Ci siamo concentrati su due argomenti: l’effetto dell’inversione del campo magnetico terrestre sull’evoluzione degli organismi viventi, e lo studio delle condizioni di vita extraterrestri in assenza del campo geomagnetico (come sulla Luna e su Marte, i due prossimi obiettivi di colonizzazione umana). Per esempio, abbiamo ipotizzato che le inversioni del campo magnetico terrestre (che si verificano ogni circa 300.000 anni) abbiano influenzato l’evoluzione e la speciazione delle piante a fiore. Abbiamo anche dimostrato che la riduzione del campo geomagnetico a valori cosmici (cioè circa 1000 volte inferiori) può influenzare il genoma delle piante al punto da farle fiorire in ritardo e che la magnetopercezione coinvolge la presenza di fotorecettori, ovvero sistemi di percezione della luce. Questi e altri studi sono rilevanti sia per comprendere meglio il comportamento delle piante sottoposte a campi magnetici sulla Terra (per esempio vicino a linee ad alta tensione), sia per la produzione di piante alimentari che sfameranno gli astronauti che colonizzeranno ambienti dove il campo magnetico è pressoché nullo (Luna e Marte) o durante i loro viaggi interplanetari nello spazio profondo dove il campo magnetico è 1/1000 di quello terrestre.

Quali ricadute hanno o potranno avere ricerche di questo tipo per il futuro dell’esplorazione spaziale e per noi che "rimaniamo a terra"?
SF: studiare la presenza dell’acqua sul pianeta ci dà informazioni preziose anche per trovare altri elementi e minerali che l’acqua porta con sé, e che sono benefit indispensabili per pensare alla permanenza umana sul pianeta. Un’eventuale nostra colonizzazione di Marte sarebbe infatti fortemente influenzata dalla presenza di giacimenti minerari e materie prime utili per tutte le produzioni umane, per costruire strumenti e manufatti; perché il viaggio tra la Terra e Marte è troppo lungo per pensare di approvvigionarsi di materie prime sul nostro pianeta. D’altronde, a partire dall’Età della Pietra, anche l’evoluzione delle diverse popolazioni sulla Terra è stata fortemente condizionata dalle risorse, dai minerali e dalle rocce presenti nei diversi territori.
MME: Se troveremo la vita sugli altri pianeti riusciremo a comprendere meglio come la vita abbia avuto origine sulla Terra. Ma oltre a migliorare la conoscenza di cosa siamo e da dove proveniamo, queste ricerche ci danno la possibilità di sapere come potremmo sopravvivere a catastrofi planetarie e come potremo trasferire la vita dalla Terra a pianeti abitabili o terraformabili. Per noi che restiamo “a terra”, i benefici sono soprattutto indiretti. Qualsiasi sforzo tecnologico volto a portare sonde, astronavi e perfino esseri umani su altri pianeti avrà delle ripercussioni notevoli sullo sviluppo economico, tecnologico e anche sociale. Pensiamo per esempio alla necessità di miniaturizzare e potenziare i computer durante le missioni Apollo della NASA degli anni ’70. Il risultato è stato la rivoluzione nei sistemi di calcolo, di comunicazione e trasmissione dei dati, con lo sviluppo del personal computer, dei telefoni cellulari e di internet. Per non parlare dei materiali innovativi per la medicina, l’agricoltura, la mobilità terrestre, aerea e marina. Ogni conquista nello spazio diventa un balzo enorme per lo sviluppo tecnologico sulla Terra, con limiti che non possono essere immaginati.

*Intervista realizzata da Francesca Gatti nell’ambito di una collaborazione tra Università di Firenze, FRidA (Università di Torino) e Scuola IMT Alti Studi Lucca all'interno del progetto AFRUT 2020 “Alta Formazione e Ricerca nelle Università Toscane 2020" finanziato dalla Regione Toscana.

Questa storia di ricerca si trova in:


Intervista a

Simona Ferrando
Massimo Emilio Maffei
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

A cura di

Redazione FRidA
Pubblicato il

08 aprile 2021

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