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Culture, Produzione culturale e artistica, Filosofia

Fantascienza e narrazioni afro-femministe, tra coscienza ecologica e nuovo Umanesimo

Wangechi Mutu. Yo Mama. 2003. (moma.org)

In questo racconto analizzo alcuni esempi di Afrofuturismo acquatico. Scopriremo, nella cornice di questo complesso fenomeno culturale che privilegia le narrazioni afrocentriche, gli intrecci tra le preoccupazioni ambientali e le questioni di genere o di razza, aprendo spiragli a un futuro in cui la giustizia è possibile.

La fantascienza è “What If literature” (Russ 1974), la letteratura del possibile, una delle forme più efficaci di scrittura politica. E se… in un libro di fantascienza gli alieni arrivassero sulla Terra invadendo una città non occidentale, tanto per cambiare prospettiva? E se decidessero di spostarsi con una navicella sottomarina, attraccare nelle profondità della laguna di Lagos, Nigeria, uno dei paesi con il più alto tasso di corruzione e criminalità al mondo, ma al contempo fortemente tecnologizzato? E se, invece di “comandare, colonizzare, conquistare […] occupare” come nella migliore tradizione dell’Impero, gli alieni decidessero “semplicemente” di cercare una casa?

Partorito dalla mente di Nnedi Okorafor, brillante scrittrice statunitense di origine nigeriania, Laguna (2014; trad. it. di C. Reali, 2017) racchiude tutto questo, rappresentando così un esempio ideale per comprendere “la svolta acquatica” dell’Afrofuturismo e i suoi intrecci con le istanze dell’ecocritica. Il romanzo, che si sottrae a ogni limitante catalogazione di genere e stile, si apre con un boato: un’immensa onda anomala agguanta i tre esseri umani che in quel momento si trovano sulla spiaggia di Bar Beach, tra cui la biologa marina Adaora. Ma subito gli alieni dimostrano di non avere cattive intenzioni, tanto che si adoperano a purificare le acque inquinate dalla fuoriuscita del “sangue nero”. È il petrolio, infatti, che segna il destino di Lagos, ne decreta la sua immensa ricchezza e le conseguenti ingiustizie ambientali e sociali. In questo mondo ibridato in cui specie, razze, lingue, prospettive si mescolano senza sosta, Ayodele è l’ambasciatrice della specie sconosciuta che si fa chiamare semplicemente “il cambiamento”: assume sembianze umane femminili, sa leggere nel pensiero e muta forma a seconda dei suoi interlocutori: pesci, bambini, ragni, presidenti, arcivescovi e una messe di altri personaggi che popolano proprio questa città, perché Lagos - da cui tutti vogliono fuggire e a cui tutti fanno inevitabilmente ritorno - “è energia. Non si ferma mai”.

Anche Pumzi (2010), il cortometraggio di fantascienza della regista di origini keniote Wanuri Kahiu, costruisce un discorso di resistenza grazie all’energia dell’acqua, qui ormai introvabile. In un’Africa post-apocalittica, arroventata per via dei cambiamenti del clima e resa inabitabile dalle devastazioni della Terza guerra mondiale (o Guerra dell’acqua, appunto), i sopravvissuti vivono confinati in un insediamento sotterraneo di Nairobi. Tutti gli abitanti sono obbligati a riciclare i propri liquidi corporei e sono costantemente controllati da una classe dirigente che mantiene l’ordine attraverso la soppressione dei sogni. La scienziata visionaria Asha, tuttavia, dopo aver ricevuto una scatola contenente della terra, riesce a scappare all’aperto e a piantare un seme che germinerà un albero e poi una foresta. Anche in questo caso la regista sceglie di collocare la vicenda in un luogo geografico violentato dall’ingordigia degli umani e di allacciare le preoccupazioni ambientali ad altre questioni cogenti - le imposizioni patriarcali, la violenza sul corpo degli afroamericani (“Pumzi” è il termine swahili per “respiro” che pare far da controparte all’ultimo, disperato grido di George Floyd), i limiti della tecnologia, le manomissioni della comunicazione, le disuguaglianze - aprendo spiragli a un futuro in cui la giustizia sembra possibile.

Sempre dal Kenya arriva un altro brillante esempio di Afrofuturismo: The End of Eating Everything (2013) dell’artista multimediale Wangechi Mutu, da tempo impegnata nella costruzione di un’estetica nera femminista. Protagonista del video è una donna molto bella, dai capelli tentacolari di medusa e il cui corpo ibridato rappresenta la Terra, a metà tra una nave e un’abitazione capace di accogliere. All’inizio la si vede fluttuare in un cielo liquido, in armonia con l’ambiente che la circonda, ma pian piano il suo sorriso si trasforma in una smorfia e infine in un urlo agghiacciante: la bocca divora gli uccelli e sputa sangue, mentre il corpo ora è una massa informe e grottesca di detriti e rifiuti, circondata all’improvviso da fumi, da esalazioni tossiche vorticose che privano il Pianeta del respiro. 


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