Storie di ricerca

Siamo (anche) ciò che abbiamo dimenticato. Il potere selettivo della memoria dai classici a ChatGPT

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Memoria

Il latino è memoria, non lingua morta. Chi studia letteratura antica esplora meccanismi mnemonici: cosa abbiamo scelto di ricordare e cosa abbiamo dimenticato. Dei mille drammi greci, solo il 3% è sopravvissuto; della maggior parte degli autori antichi possediamo al massimo frammenti. Questo processo selettivo continua con l'intelligenza artificiale: i miei esperimenti di "SeneCHAT" mostrano che un algoritmo può simulare ciò che Seneca ha scritto, ma non la complessità di ciò che ha vissuto e letto. La nostra identità culturale risiede in questi strati di memoria – ricordati e dimenticati – che ci definiscono più di quanto immaginiamo.

I meccanismi della memoria non sono solo oggetto di studio per le neuroscienze, ma rappresentano l'essenza stessa della letteratura classica che insegno: un dialogo tra presenze e assenze, tra ciò che il tempo ha scelto di preservare e ciò che ha lasciato svanire.
Uno dei miei moduli magistrali, che dall’anno prossimo sarà attivato come corso a tutti gli effetti, si intitola Letteratura latina e Neuroscienze; ma già l’anno scorso ho introdotto il taglio cognitivistico nello studio della letteratura latina, facendo studiare ad allieve e allievi le Catilinarie in questa prospettiva. In questi celebri discorsi politici contro Catilina, Cicerone lavora sulla costruzione del ricordo degli astanti e sui loro schemi cognitivi. È un testo ideale per riflettere su come il linguaggio agisca sulla mente: sulla memoria, sull’attenzione, sull’emozione.

Quando dico che mi occupo dei rapporti tra letteratura antica e neuroscienze, di norma mi si guarda come se dicessi che mi occupo dei rapporti tra cucina francese e  salto in lungo (credo si pensi che chi fa ricerca nel campo del latino passi il tempo a declinare rosa, rosae). Non è invece così strano: chi insegna latino si occupa intrinsecamente di memoria; è memoria la letteratura latina (gran parte della quale è, come direbbe la mia amica e collega Alice Borgna, storia di maschi bianchi morti – dal mio punto di vista interessa il fatto che sono morti) ed è in fondo memoria linguistica il latino stesso (che mi rifiuto di definire “lingua morta”; piuttosto, lingua di memoria).

Non ci si può proprio occupare di letteratura antica senza riflettere su che cosa davvero ricordiamo quando crediamo di ricordare il passato. Chi ci ha preceduto ha costruito un monumento (la radice è la stessa di “memoria”) letterario per noi, decidendo che cosa affidare al ricordo e che cosa all’oblio, a volte in modo piuttosto radicale.

È nota la prassi dell’Antica Roma della damnatio memoriae, che presenta notevoli analogie con la moderna cancel culture (posto che le due pratiche si sviluppano in contesti sociali e con motivazioni profondamente diversi): l’imperatore Caracalla, dopo aver fatto assassinare il fratello Geta, volle cancellarlo dalla storia, facendone scalpellare via il nome dalle epigrafi. A titolo di esempio, fra quinto e quarto secolo a. C. si stima che siano state rappresentate in Grecia più di mille tragedie; di queste, ne leggiamo oggi trentadue (dunque, il 3%) perché i grammatici alessandrini ritennero che fossero quelle degne di essere conservate. Come sappiamo che tra ciò che abbiamo perso non ci fosse nulla di ancor meglio di Antigone o Edipo re?

La memoria letteraria è stata anche vittima di limiti materiali e scelte pragmatiche. Copiare un testo era un procedimento lungo e costoso, il che, se vogliamo vederne il lato positivo, faceva sì che, a differenza di oggi, prima di mettere penna in carta (o calamo in papiro) ci si pensasse bene. Questa selezione forzata dalla scarsità di risorse diventava un primo filtro di memoria collettiva: se proprio la vanità spingeva comunque a scrivere, il cammino che un testo doveva fare per sopravvivere al suo autore era tutto in salita.
Di Tito Livio abbiamo circa un terzo dell’opera, del Satyricon di Petronio, che è un’opera famosissima, abbiamo in realtà talmente poco che è difficile ricostruire davvero la trama (è come se dei Promessi Sposi si fossero conservate solo le parti su Renzo a Milano).


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E poi c’è la scuola, che seleziona da sempre quello che dobbiamo leggere. Non abbiamo più quasi nulla del poeta latino Ennio, che i romani chiamavano pater, come noi Dante: era il poeta della Repubblica ma, durante l’impero di Augusto, passò di moda a favore di Virgilio, che costruì una nuova identità romana gloriosa e mitica, e così a scuola si studiava ormai l’Eneide al posto degli Annales.

E qui una domanda sorge spontanea: perché è grave, per noi, aver perso Ennio, anche se probabilmente i Romani non avevano torto a pensare che Virgilio l’avesse superato?...

… Perché chiunque abbia scritto epica a Roma l’aveva letto e vi faceva riferimenti quando scriveva, usandone le formule e gli stilemi, in una sorta di gara poetica coi modelli: Ennio aveva scritto at tuba terribili sonitu taratantara dixit? Virgilio replicava con at tuba terribilem sonitum procul aere canoro / increpuit.
Questo verso di Ennio è stato conservato perché citato dai grammatici come esempio di verso onomatopeico, o semplicemente per dire che Virgilio l’aveva cambiato; ma di quanti versi di Virgilio, o Lucano, o anche di autori che possono apparire lontani dall’epica come Catullo, celebriamo l’originalità senza sapere che il copyright di certe intuizioni spetterebbe a Ennio? 

Per quanto possibile, cerchiamo di recuperare la memoria. Per ricostruire l’Ennio perduto personalmente ho il trucco della triangolazione che mi è stato insegnato dal mio carissimo maestro Paolo Mastandrea, pioniere a livello mondiale della costruzione di database antichistici: poniamo di avere un verso che si trova quasi identico in Lucano e Albinovano Pedone, un oscuro amico di Ovidio. Possiamo davvero pensare che un grande poeta come Lucano abbia copiato da Pedone? Seriously? Difficile: si copia dai grandi; è probabile che entrambi abbiano copiato da una grande fonte perduta, e la più grande è Ennio. Sicuramente l’intelligenza artificiale porterà a scoperte notevoli applicando algoritmi simili.

A proposito. Come attività da svolgere all’interno della neonata Piattaforma di intelligenza artificiale di UniTO sto creando alcuni GPT specializzati, in grado di impersonare abbastanza bene scrittori antichi. Quello a cui sono più affezionato è probabilmente SeneCHAT (che, come intuite, simula il filosofo di età neroniana Seneca).

Per crearli, addestro i GPT con tutta l’opera dell’autore, e riesco a ottenere discreti apocrifi. Ma non otterrò mai Seneca. Perché? Perché il GPT ha (e ”sa”) tutto ciò che Seneca ha scritto, ma non ha (e non sa) tutto ciò che Seneca ha letto.

E non ha vissuto l’amore con Paolina, e non ha subìto l’educazione del padre (Seneca il Vecchio), e non ha conosciuto Nerone (non la storia che sta sui libri: quella gliela posso fornire, ma la convivenza quotidiana); sa quello che ha detto, ma non quello che non ha voluto o potuto dire.

In sostanza, il mio pseudo-Seneca è un monumento senza memoria, mentre la nostra complessità consiste nell'essere fatti di strati di memoria sovrapposti e intrecciati, proprio come i palinsesti antichi su pergamena dove un testo veniva scritto sopra un altro, ma conservando tracce invisibili di ciò che c'era prima.

Siamo il risultato di tutto ciò che abbiamo imparato, di tutto ciò che abbiamo dimenticato, e perfino di ciò che non immaginiamo di aver dimenticato. Studiando il mondo antico lo capiamo sempre di più.