Storie di ricerca

Braccio di ferro con l’Alzheimer: comprendere i meccanismi del cervello per una cura precoce

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Memoria

L'invecchiamento è il principale fattore di rischio per le malattie neurodegenerative. In Italia, circa un milione di persone vive con la malattia di Alzheimer, caratterizzata dal progressivo declino delle funzioni cognitive e da un impatto profondo sull'esistenza di chi ne soffre ma anche di chi se ne prende cura. Alcuni segnali della malattia si presentano già prima dei sintomi, motivo per cui comprendere i meccanismi alla base della neurodegenerazione è l’obiettivo della nostra ricerca: vogliamo trovare un modo per ottenere una diagnosi precoce e strategie terapeutiche che favoriscano un invecchiamento sano.

La malattia di Alzheimer è la causa più comune di demenza, caratterizzata da perdita di memoria recente, declino cognitivo e cambiamenti comportamentali. Dato che il principale fattore di rischio è l’età, con l’aumento dell’aspettativa di vita i casi sono destinati a crescere. Secondo l’OMS (l’Organizzazione mondiale della sanità) infatti, oggi riguarda 50 milioni di persone e, con 10 milioni di nuovi casi ogni anno, si stima che raggiungeranno i 130 milioni nel 2050. In Italia ne soffre circa un milione di persone, di cui 75 mila in Piemonte. 

La malattia colpisce nella grande maggioranza dei casi dopo i 65 anni ma esiste anche una forma precoce, in cui i sintomi compaiono tra i 40 e i 65 anni. Oggi, però, sappiamo che la malattia lascia tracce ancor prima della comparsa dei sintomi, ma gli strumenti a nostra disposizione non ci permettono ancora di fare una diagnosi precoce. Inoltre, non esiste ancora una cura ma solo farmaci che possono attenuare i sintomi. Per questo la diagnosi precoce e la ricerca di una cura rappresentano sfide significative nella ricerca di base e medicina moderna. 

All’Istituto di Neuroscienze della Fondazione Cavalieri Ottolenghi (NICO), come gruppo “Sviluppo e Patologia del Cervello” studiamo quei processi che si verificano nelle prime fasi dell’invecchiamento e che portano a neurodegenerazione. Oltre ai meccanismi patofisiologici di risposta alle malattie – come l’accumulo di una proteina (la beta-amiloide) sotto forma di aggregati tossici detti placche amiloidi, lo stress ossidativo e la neuroinfiammazione – studiamo anche il metabolismo del ferro cerebrale, che abbiamo recentemente descritto in un articolo pubblicato su Scientific Reports

Studiando l’invecchiamento nei topi, abbiamo infatti dimostrato che il ferro è presente un po’ dappertutto nel cervello. Con l’avanzare dell’età, questo elemento si accumula nei neuroni, rendendo più probabile la loro inattività e morte.

Nonostante il ferro sia un elemento essenziale presente nelle molecole che trasportano l'ossigeno dentro e fuori le cellule, un suo accumulo può rappresentare un rischio. In presenza di ossigeno infatti, il ferro può formare dei radicali liberi che possono danneggiare le membrane cellulari, le proteine ​​e il DNA. 

Grazie al sostegno della Fondazione CRT e del MIUR, al Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino, stiamo studiando in che modo l’accumulo di ferro possa essere collegato alla presenza delle placche amiloidi, all’infiammazione dei neuroni e al danneggiamento dei mitocondri (gli organelli che forniscono energia alle cellule).

I mitocondri (di cui si occupano la dottoressa Mariarosa Mezzanotte e il dottor Javier Chicote) contengono fino al 50% del ferro cellulare, fondamentale per produrre energia e per molte reazioni vitali. Ma proprio perché così ricchi di ferro, sono anche particolarmente sensibili alla presenza di ossigeno. 

Il cervello ha un fabbisogno energetico elevato e quindi un malfunzionamento dei mitocondri può comprometterne le funzioni. In molte malattie neurodegenerative – quella di Alzheimer compresa – si è scoperto che questi iniziano a malfunzionare già prima della comparsa dei sintomi.

Perciò studiarli ci aiuta a capire come si sviluppa la malattia e a cercare nuove strategie per intervenire precocemente.

Inoltre, il nostro team di ricerca, grazie al supporto della Fondazione Veronesi (che finanzia con una borsa di studio il lavoro della dottoressa Mariarosa Mezzanotte), vuole comprendere anche se e come un’attività fisica costante sia in grado di riequilibrare il metabolismo cerebrale del ferro.
Un invecchiamento sano è infatti influenzato dallo stile di vita e dall’esercizio fisico, che possono rallentare il declino delle funzioni cognitive. Il nostro studio valuta il possibile effetto positivo dell'esercizio fisico volontario dalla giovane età sulla regolazione del ferro cerebrale e sulle capacità cognitive. Dai dati preliminari ottenuti, l’esercizio fisico costante sembra ridurre i comportamenti ansiosi, migliorare la memoria e l’apprendimento.

In prospettiva, i nostri studi potranno essere rilevanti non solo per la malattia di Alzheimer, ma anche per altre patologie neurodegenerative come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), l’Atrofia Spinale Muscolare (SMA) - a cui sta dedicando il proprio lavoro di dottorato la dottoressa Noemi Scimia - , la malattia di Parkinson e tutte quelle malattie in cui le disfunzioni mitocondriali rappresentano un evento precoce.