Storie di ricerca

Anatomia di un ricordo: dentro il linguaggio affettivo del nostro cervello

Questo contenuto fa parte del tema del mese: Memoria

La memoria emotiva ha un ruolo cruciale nel definire chi siamo. Secondo studi recenti, si forma grazie all'interazione tra diverse aree del cervello tra cui le cortecce sensoriali, che ci aiutano a dare un valore affettivo a ciò che percepiamo, e le cortecce prefrontali, che regolano la maniera in cui reagiamo alle emozioni. Indagare questi meccanismi cerebrali offre nuove chiavi di lettura per affrontare l’ansia e comprendere più a fondo i disturbi dello spettro autistico.

C’è qualcosa di straordinario nella capacità di ricordare. “L’uomo mortale non ha che questo di immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”, scriveva Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò.
Le persone che abbiamo amato, i luoghi dove siamo stati felici, le parole che ci hanno ferito e i gesti che ci hanno cambiato rimangono impressi nella nostra memoria. Numeri, date, volti, voci, città, momenti: i ricordi ci guidano, ci fanno crescere e, soprattutto, ci raccontano. 

Oggi, grazie alle neuroscienze, iniziamo a comprendere cosa accade nel cervello quando si forma un ricordo. A partire dal fatto che non esiste un’unica sede della memoria: è l’interazione tra molteplici strutture cerebrali che consente di formare e conservare i ricordi.
Il nostro gruppo di ricerca, da anni, esplora questa affascinante cooperazione. In particolare, insieme alle dottoresse Giulia Concina, Annamaria Renna, Luisella Milano e Camilla Giglio e ai dottori Felice Cicciarelli ed Eugenio Manassero, studiamo come il cervello attribuisca un significato affettivo alle esperienze piacevoli e spiacevoli.

Così, abbiamo messo in luce un ruolo, fin qui sconosciuto, di alcune zone cerebrali chiamate cortecce sensoriali. Fino ad ora si pensava che servissero solo a processare le informazioni sensoriali: ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo. Noi, invece, abbiamo  scoperto che giocano anche un ruolo fondamentale nella memoria emotiva.

Queste aree non si limitano, infatti, ad analizzare uno stimolo sensoriale, ma contribuiscono ad attribuirgli anche un connotato affettivo. In altre parole lo colorano di emozione e gli danno un valore che può durare tutta la vita.

Comprendere questi meccanismi ha profonde implicazioni cliniche. Infatti, le stesse strutture che permettono di associare un valore affettivo a un volto possono, in condizioni diverse, generare ricordi traumatici che persistono nel tempo e che possono compromettere la vita quotidiana delle persone. È su queste basi che si sviluppano patologie come il disturbo post-traumatico da stress o i disturbi d’ansia.

Il nostro gruppo sta anche cercando di capire se le cortecce sensoriali possano essere coinvolte nel conferire un significato affettivo anche alle esperienze sociali, e se un’eventuale alterazione di questa funzione possa giocare un ruolo nella nascita di disturbi dello spettro autistico.

Nelle persone autistiche, infatti, le cortecce sensoriali potrebbero funzionare in modo diverso, modificando il modo in cui esse percepiscono il mondo, sia sul piano sensoriale, sia su quello delle emozioni legate alle situazioni sociali.

Nello svolgere queste funzioni le cortecce sensoriali dialogano con altre strutture cerebrali. Tra queste ci sono l’amigdala (una delle regioni note per processare le esperienze emotive), il cervelletto (che regola i nostri comportamenti emotivi) e la corteccia prefrontale (che ci consente di adattare il nostro comportamento alle situazioni in cui ci troviamo). Proprio su quest’ultima regione stiamo conducendo, insieme alla prof.ssa Raffaella Ricci del Dipartimento di Psicologia, una ricerca tramite l’impiego della stimolazione magnetica transcranica (TMS). Questa tecnica impiega impulsi magnetici, innocui, per modulare l'attività neuronale nelle aree su cui viene applicata.

I primi risultati ci suggeriscono che applicare la TMS a una specifica zona della corteccia prefrontale potrebbe ridurre significativamente alcune risposte corporee ai traumi, come il battito cardiaco e la sudorazione delle mani.

Questa ricerca ha un enorme valore clinico, perché apre la strada a un nuovo strumento che, in futuro, potrebbe affiancare le terapie già esistenti per aiutare chi ha vissuto esperienze traumatiche o soffre di disturbi d’ansia. Perchè ogni volta che ricordiamo un momento triste, ogni volta che una canzone ci commuove o una voce ci emoziona, il nostro cervello lavora per costruire il significato più profondo di ciò che stiamo vivendo. E studiare questi meccanismi significa, in fondo, provare a comprendere cosa ci rende le persone che siamo.