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Il mosaico di citazioni in Primo Levi. Tra mito, scienza e letteratura


Primo Levi. Deportato, testimone, chimico, scrittore. Poliedro, rizoma? Quanti, e quali, i volti della sua opera? E da dove nasce l’immaginario che vi si trova riflesso? Cosa raccontano le sue pagine, variopinte galassie tra realtà e letteratura, le cui rotte non ci si stanca mai di percorrere ed esplorare?

Le domande che mi pongo solitamente sul mio progetto di ricerca sono molte, troppe. Nei prossimi tre anni, intendo ridiscutere la posizione di Primo Levi tra scrittura e realtà, tradizionalismo e postmodernismo, mýthos e lógos. Il che vuol dire risalire alle fonti, entrare nel mondo di un autore e concentrarvisi. Io ho scelto Primo Levi, la cui opera percorro, ripercorro ed esploro nella speranza di ritrovarne vene sotterranee ancora pulsanti, e farle emergere.

“Levi appartiene alla categoria degli scrittori capaci di appropriarsi di archetipi e modelli così intimamente da riuscire a essere sé stesso anche e soprattutto quando cita opere, testi, immagini e parole altrui (cita, evoca, rielabora)”, come afferma Mario Barenghi, docente di Letteratura all’Università Milano Bicocca. Essendo io un comparatista, cioè uno studioso che fa del confronto tra i testi letterari (e non solo) il suo lavoro, cerco di rintracciare i dialoghi intertestuali (preziosi mosaici di citazioni) presenti nell’opera del chimico-scrittore, ex liceale con salda formazione umanistica, ma anche ex deportato e testimone.

“Le mie miniere sono più d’una, e diverse”, così diceva in un’intervista, riconoscendo di avere tantissimi stimoli, letterari e non. Forse, scriveva in quel caleidoscopico condensato di intertestualità che è La ricerca delle radici, si era “inconsapevolmente preparato a scrivere, così come il feto di otto mesi sta nell’acqua ma si prepara a respirare; forse le cose lette riaffiorano qua e là nelle pagine che poi ho scritto, ma il nocciolo del mio scrivere non è costituito da quanto ho letto”.

Riportando questa ultima citazione, non intendo fare del banale determinismo. Vorrei piuttosto tracciare la linea di quella osmotica confluenza di “input ibridi”: una convergenza tra i diversi “nuclei di condensazione” della sua opera, che unisce, combina e riplasma mitologia classica, biblica, leggende ebraiche, scienza e fantascienza. Il tutto grazie a quei testi-maestri che lo avevano influenzato, durante il liceo e dopo, perché lui stesso, “lettore strampalato”, leggeva “stando in casa, andando per via, coricandosi e alzandosi” (come nel Deuteronomio). E succede così che si sfuma il confine tra letteratura, realtà e memoria, e che il fascino seduttivo della finzione intriga il ricordo, si chiede aiuto all’immaginazione per poter dire, e ci si riaggancia alle salde verità del mito e della mitologia. Ed ecco l’esperienza letteraria, ecco, ad esempio, Il canto di Ulisse: un polimero in cui la mitologia classica viene riletta tramite Dante e comparata con la realtà, in cui il grande racconto del re di Itaca, codificato tramite la letteratura, si offre come consolazione esistenziale, per diventare poi letteratura stessa.

Dunque lavoro anche sui miti, che trasudano esperienza e che credo sia giusto studiare per capire, perché così tanto ci dicono su di noi. E per miti io intendo le innumerevoli storie trapunte dall’homo fictus, l’uomo della finzione, sul firmamento delle narrazioni di tutto il globo, quelle tramite cui ci siamo sempre confrontati con il mondo intorno a noi, pensandolo, raffigurandolo e riconfigurandolo, comprendendolo.
Poi anche perché il confronto, “L’esercizio di se stessi, il confrontare se stessi con gli altri e con il mondo materiale, benché costi fatica e dolore, è indispensabile. Non si può pensare una vita senza confronto,
e senza sconfitte quindi”. E che cosa è il confronto il mito lo insegna fin troppo bene.

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