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Nascita ed evoluzione del concetto di razza tra genetica, storia e diritto

Come nasce e si evolve il concetto di razza? E se oggi non ha alcun fondamento scientifico, perché “razza” è ancora una voce dei nostri dizionari? Lo abbiamo chiesto ai nostri docenti e ricercatori: Enrico Pasini (Dip. Filosofia e Scienze dell’Educazione), Liliana di Stasio (DISAFA), Giorgio Sobrino e Anna Mastromarino (Dip. Giurisprudenza).

Se oggi sappiamo che il concetto di razza umana non ha alcun fondamento scientifico lo dobbiamo a Luca Cavalli Sforza, che, pur avendo iniziato gli studi in medicina nel nostro Ateneo, li aveva conclusi a Pavia, probabilmente come conseguenza delle leggi razziali del 1938, come ci conferma Paola Novaria, responsabile dell’Archivio Storico. L’espulsione di studiosi di grande valore, come Giuseppe Levi, aveva portato a una rapida caduta di valore di insegnamenti e ricerca di cui probabilmente il giovane Sforza, futuro genetista di fama internazionale, si accorse.
Cinquant’anni dopo fu proprio lui ad affermare, con i suoi studi, che la classificazione razziale, basata su differenze nette nella biologia degli individui, non ha senso d’essere: “si passa gradualmente da un tipo ereditario a un altro assai diverso con discontinuità rare e sottili", scriveva su Il Sole 24 Ore nel 2005 e proseguiva: "comunque si definiscano le razze la variazione [in termini genetici, ndr] è minore del 3-5 per cento”.

Professor Pasini, il dibattito sulla questione razziale si era sviluppato fin dal secondo Settecento in un contesto ben diverso da quello della dittatura, come si evince anche dalla mostra “
Scienza e vergogna” di cui è curatore. Ci racconta, brevemente, quel contesto?
Il concetto di razza nasce, a partire dal modello delle razze applicato agli animali, come strumento scientifico per classificare popolazioni umane di diverse provenienze geografiche e caratteristiche somatiche. Si tratta di un ramo dell’antropologia quando questa diventa scienza e non è più una dottrina morale sull’uomo. C‘è quindi molto lavoro per cercare di definire la razza, ci si interroga se essa sia data da caratteristiche somatiche esterne, che rapporto abbia con il clima, se le razze abbiano caratteristiche essenziali differenti. Cosa implicava poi l’esistenza di diverse popolazioni o razze umane? Avevano un unica origine, o no? Il dibattito era rilevante, legato alla geografia, alla politica, e coinvolgeva anche la filosofia.

Come prosegue il dibattito nell'800?
Con il dibattito settecentesco, principalmente scientifico, che si interroga sull’efficacia classificatoria, si intersecano man mano questioni di politica e amministrazione coloniale e, successivamente, ideologiche. La giustificazione dei domini imperiali inizia a basarsi su discorsi razzisti, quindi di superiorità di alcune razze sulle altre. Questo a fine ‘800 porta a un’affermazione molto ideologica del razzismo come fondamento di teorie sociali conservative. Si teorizza un senso della storia dell’umanità in cui certe razze devono dominare su altre razze. Ed è da queste ideologie e anche dalle politiche coloniali che si “importano” questi concetti nell’Italia fascista, per costruire a tavolino un antisemitismo non più religioso, ma su base razzista.

Professoressa Mastromarino e dottor Sobrino, l'articolo 3 della Costituzione italiana recita che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”. Ma ha ancora senso l’uso del termine “razza”? Non si potrebbe pensare di sostituirlo con il più moderno “etnie” alla luce delle più recenti evidenze scientifiche?
Sobrino: Il pensiero di molti giuristi a riguardo, me compreso, è che i Padri costituenti abbiano inserito questo termine proprio in conseguenza delle leggi razziali, come una memoria storica e un conseguente monito per il futuro. Da un punto di vista giuridico, per evitare le discriminazioni sarebbe bastato scrivere “tutti sono uguali davanti alla legge”, senza ulteriori precisazioni; ma la Costituzione è anche un manifesto politico, e vuole appunto servire da monito per dire chiaramente “mai più!” a leggi che discriminino le persone in base alla “razza”, qualunque significato questo termine assuma. Per questo ha tuttora pienamente senso mantenere quel termine nella nostra Costituzione.
Mastromarino: Aggiungo che il termine “razza” utilizzato dai costituenti è di uso comune in quell’epoca ancora fortemente influenzata dalle teorie del così detto darwinismo sociale dei primi decenni del Novecento. Non credo che esistano parole “più moderne” da impiegare; non sono neppure sicura che il termine "etnia" sia più adatto, nonostante la sua apertura al dato culturale oltre che biologico. Fermo restando che l’art. 3 è tra quegli articoli della costituzione che espressamente non possono essere sottoposti a modifica, quel che è certo è che tutte le costituzioni datate sono caratterizzate da un linguaggio spesso superato dai tempi, così che solo una interpretazione estensiva, per così dire aggiornata, può esaltarne l’attualità. Ciò è particolarmente vero per quel che concerne l’art. 3 che può essere considerato ancora oggi la base della normativa antidiscriminazione italiana.

Professoressa Di Stasio se nell’ambito “umano” il termine “razza” non viene più usato nel linguaggio scientifico perché privo di senso, nell’ambito della zootecnica è tutt’ora in uso. C’è allora una definizione di razza in ambito animale supportata da basi genetiche?
Occorre dire innanzi tutto che in ambito zootecnico “razza” è un concetto che non ha valenza negativa in senso etico, è piuttosto un valore perché frutto di programmi di selezione volti a ottenere produzioni con determinate caratteristiche in termini di quantità e qualità, come nel caso di latte, uova o carni, se parliamo di allevamenti. La razza, che viene certificata da libri genealogici, è definita come un insieme di animali della stessa specie che condividono una serie di caratteri genetici che determinano caratteristiche esternamente evidenti come il colore del manto. È tuttavia una definizione controversa perché, esattamente come nella specie umana, la variabilità genetica tra razze rappresenta soltanto una piccola parte della variabilità esistente a livello di specie e, anche con le più approfondite analisi genetiche, si possono solo fare delle supposizioni probabilistiche sulla razza di appartenenza. D’altra parte sempre grazie alla genetica sappiamo che, nel tentativo di conservare una “razza pura”, si corre il rischio di fare accoppiamenti in consanguineità, con riflessi negativi sulla progenie e quindi sulla razza stessa. Si usano allora tecniche per mantenere una certa variabilità e salvaguardare la biodiversità, e sempre più gli sforzi vanno verso la conservazione del maggior numero di razze locali per mantenere una buona variabilità della specie.


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