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Popolazione, Geografia e Sviluppo urbano

Città spoliate: il bello come nuova frontiera di disuguaglianza

Heydar Aliyev Center

La città contemporanea ha un nuovo ruolo: deve orientare i destini dei suoi abitanti. Sotto pressione per risolvere questioni al di fuori della propria portata come lo sviluppo economico, l’occupazione, la sicurezza, il benessere, la città risponde in maniera estetica, rifacendosi il trucco. Perché? Per chi? Con che effetti?

Viviamo con scarsa consapevolezza riflessiva un periodo di glorificazione del passato che ha tinte fortemente territoriali. Si pensi alle politiche locali competitive per aggiudicarsi le etichette dell’Unesco o dell’Unione Europea e diventare, di volta in volta, “patrimonio dell’umanità” o “capitale europea della cultura”. Intere regioni, provincie, città e persino quartieri lottano gli uni contro gli altri per ricevere l’agognata etichetta che consentirà loro di attirare nuove masse di turisti, investimenti e relative promesse di sviluppo. Perché questa crescente patrimonializzazione funzioni, c’è un bisogno crescente d’istituzioni culturali che certifichino l’autenticità di ciò che autentico non può essere, si tratti del paesaggio o della storia. Musei, eventi, retoriche fioriscono in ogni dove e creano dei vortici spazio-temporali che inghiottono energie e aspirazioni. Ovunque si diffondono attività di storytelling locale, si ampliano i margini per il branding urbano, ma quello che viene venduto, arricchito di narrazione, è un passato mitizzato, spoliato dai conflitti, dalle storie non ufficiali, e reso innocuo, piacevole, autentico.

Le nostre vite si basano sempre più su questi meccanismi. Ovviamente, il rovescio della medaglia sta proprio in ciò che non deve essere narrato e visto, portando all’esclusione progressiva di tutto ciò che non sia tipico. Parliamo dunque di spazi, oggetti, pratiche e individui considerati indecorosi e per questo messi ai margini.
Le lotte che stanno crescendo dunque attorno alle questioni turistiche - come il tema degli alloggi affittati a breve termine - e quelle che riguardano rifugiati, migranti e popolazione eccedente autoctona, non ricollocabile dentro gli schemi dell’arricchimento, ma anche quelle contro la cosiddetta foodification, l’arricchimento simbolico e sociale del cibo a fini estrattivi, non sono che frammenti dello stesso conflitto. Vale a dire il conflitto tra il modello capitalistico precedente, con il suo sistema di diritti e di disuguaglianze organizzate, e quello in via di costituzione, predatorio e finanziarizzato, tutto da negoziare in termini di diritti eppure già attivo dal punto di vista della spoliazione.
Il capitalismo con cui ci confrontiamo oggi si nutre di estetica.

La bellezza, o comunque il riferimento a essa, diventa la nuova frontiera della disuguaglianza, ponendo individui, territori, oggetti davanti all’imperativo della performance estetica come garanzia di potenziale arricchimento. Le estetizzazioni del reale non devono rimanere confinate in uno spazio di riflessione filosofica sulla ricezione del bello ma vanno concepite come campo politico, economico e sociale di definizione della realtà. Una città, un’architettura, un corpo ma persino dei numeri che non siano affascinanti non hanno margine di estrazione, sono condannati all’espulsione.

Credo che uno dei compiti più pressanti ma anche più interessanti del nostro tempo sia proprio quello di controbattere a questo dominio della bellezza a scopo di arricchimento con altre forme di bellezza, capaci di integrare persone, spazi e processi che vengono sistematicamente confinati ai margini. Il margine può essere un rifugio, certo, ma rischia anche sempre di essere il preludio all’espulsione.

Questa storia di ricerca si trova in:


un racconto di
Giovanni Semi
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

Pubblicato il

26 settembre 2018

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