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Processi sociali e politici, Legge e Comunicazione

Superare il sessismo nella lingua: tra resistenze e risposte della linguistica

Fotogramma tratto dal film "Scusate se esisto" (2014), ispirato a una storia vera, con Paola Cortellesi nei panni di una giovane architetta costretta a fingersi uomo per poter dirigere un progetto di riqualificazione del quartiere Corviale a Roma.

“Suona male”, “È grammaticalmente scorretto”, “Non sono queste le battaglie di cui abbiamo bisogno”. Lo si sente dire quando in italiano compaiono declinazioni al femminile di professioni, incarichi o ruoli. Qual è la posizione della linguistica a riguardo? Ci risponde Rachele Raus, esperta di analisi del discorso, lessicologia e terminologia.

Durante il suo incarico di presidente della Camera dei deputati (2013-2018), Laura Boldrini si è particolarmente battuta contro il sessismo linguistico spronando alla femminilizzazione delle cariche istituzionali (la presidente, la ministra, la sindaca, ecc.). Questo ha generato un dibattito nell’opinione pubblica italiana e spesso si è sentito dire che sono terminologie cacofoniche, etimologicamente scorrette. Professoressa Raus, cosa risponde da linguista?
Si tratta dei due principali argomenti usati in generale per ostacolare un cambiamento nella lingua. La cacofonia è un problema inesistente in linguistica: ogni neologismo “suona male”, ma è solo questione di farsi una nuova abitudine fonetica. Nel caso della femminilizzazione della lingua si aggiunge però una questione di norma discriminatoria introiettata, per cui il femminile di ruoli tradizionalmente maschili “suona male”. Da un punto di vista grammaticale l’errore non sussiste: la regola è che le parole che terminano in -o, al femminile diventano -a. Ma c’è di più. Quando i nomi di professione accompagnano il nome e cognome della persona divengono vere e proprie apposizioni con funzione aggettivale e diventa perciò scorretto non declinarli al femminile.

Sta di fatto che spesso le donne sono le prime a rifiutare la declinazione femminile della loro carica o professione…
È vero, e in questo caso si parla di semantica di prestigio: la donna introietta un’insicurezza linguistica per cui usare il maschile inclusivo per definire il proprio ruolo diviene un modo, la maggior parte delle volte inconsapevole, per legittimarsi. Non è più allora solo un problema linguistico ma di stereotipo, che può persino diventare pregiudizio. La lingua è in questo caso il riflesso della nostra percezione di una questione socio-culturale.

Eppure si sente dire, da parte delle stesse donne, che la questione linguistica ha poca importanza e che le battaglie da combattere per i loro diritti sono altre…
Come linguista posso dire, al contrario, che si tratta di una battaglia fondamentale perché il linguaggio veicola l’esistenza delle cose e la nostra percezione su di esse. Ha quindi un ruolo cruciale nella discriminazione. Il problema sta nel fatto che la lingua viene considerata un mero “strumento” di comunicazione, una sorta di codice. Eppure, anche se intangibili, lingua e comunicazione hanno un effetto fortissimo nel concettualizzare la realtà. Un esempio tragico è quello dei suicidi causati dalle parole d’odio subite.

Che dire poi dell’uso diffuso del termine “uomo” per indicare umanità, essere umano, specie umana?
C’è molta letteratura al riguardo e si prende spesso come esempio lo sbarco sulla Luna definito come un “Piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”, un’espressione utile a linguiste e linguisti per mostrare la differenza tra i due concetti. Usare “uomo” come iperonimo, cioè come termine che rinvia all’umanità in senso generale, è ormai desueto. La raccomandazione a non usarlo più è inclusa nel recente documento (a pag 9, ndr.) del Segretariato generale del Consiglio dell’Unione Europea pubblicato nel novembre 2018.

A nome del CIRSDe, lei è stata anche di recente coinvolta in un cambio di passo anche da parte di UniTo. Ce ne parla brevemente?
A seguito della sollecitazione della consigliera di fiducia Maria Spanò e dopo una valutazione effettuata con il supporto del Comitato Unico di Garanzia dell’Università (CUG) di Torino dello status del linguaggio scritto adottato dall’Ateneo, a partire dal 2015 abbiamo prodotto delle linee guida e contribuito alla redazione, oltre che sottoscritto, la carta d’intenti “Io parlo e non discrimino”, alla quale hanno aderito diversi enti locali e associazioni piemontesi e alcuni media regionali. Questo lavoro è stato presentato l’8 marzo 2016 presso la Cavallerizza reale a Torino. È invece di pochi mesi fa, e in parte ancora in via di implementazione, l’adeguamento alle linee guida delle diverse pagine web del sito di UniTO.



Questa storia di ricerca si trova in:


Intervista a

Rachele Raus
DIPARTIMENTO / STRUTTURA

A cura di

Redazione FRidA
Pubblicato il

02 aprile 2019

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